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Ti amo ma non ti desidero. Note sull’amore in Ortega y Gasset

Magritte-Amants

Parliamo di amore, ma non di amori. Esordisce così Ortega y Gasset nei suoi Estudios sobre el amor (1941), raccolta delle pagine che lo Spagnolo scriveva tra il 1926 e il 1927 sul quotidiano madrileno El Sol. Gli amori sono le storie che capitano tra uomini e donne, più o meno occasionalmente.

Nell’amore, invece, entrano molte altre cose: desideri, pensieri, volontà, azioni. Ma l’amore non va confuso con questi elementi: certamente, ciò che amiamo è anche desiderato, ma ci sono cose che desideriamo senza amarle, o perfino odiandole, sapendo che per noi sono nocive. Quindi guai a confondere amore e desiderio: de-siderare significa allontanarsi dalle stelle, cioè dall’amore, che “muove il sole e le stelle”.

P. Picasso, El beso (1969)

Tuttavia, la ragione principale per cui amore e desiderio non vanno confusi è in relazione al soddisfacimento: “Desiderare qualcosa è, in definitiva, la tendenza a possedere questo qualcosa” (Ortega y Gasset, 1941, p. 554), cioè a far sì che l’oggetto desiderato entri nella nostra orbita. Perciò il desiderio termina nel momento stesso in cui l’oggetto è posseduto: “Finisce col soddisfarlo”. Una volta raggiunto l’oggetto del desiderio, non lo desideriamo più. Diversamente, l’amore è un eterno insoddisfatto.


La prospettiva di Ortega sembra rovesciata da Lacan, secondo cui il desiderio è mancanza. La stessa esperienza del desiderio ipostatizza l’assenza: è l’esperienza di un’insoddisfazione. Alla fine si rivela come desiderio di niente, perché nessun oggetto può essere adeguato a soddisfarlo. Sartrianamente, il desiderio è la mancanza-a-essere del soggetto; anzi, il soggetto è il desiderio, che è rivelazione di una mancanza radicata nell’inconscio. Di più: “La mira del desiderio non è l’oggetto, ma quel che manca nell’oggetto, quel che l’oggetto fa mancare. L’oggetto fa da velo, rinvia a qualcos’altro non identificabile” (Monetti, 2008, p. 162). Il desiderio, dunque, ha una chiara valenza simbolica, cioè mira a qualcosa che rimanda a qualcos’altro. Ma la vera rottura rispetto alla prospettiva di Ortega è che Lacan ritiene il desiderio inesauribile, perché non trova mai un soddisfacimento nell’oggetto. 

Eppure, non molto diversamente dall’impostazione di Lacan, Ortega precisa che il desiderio è passività, cioè desiderio che l’oggetto giunga a me: in un senso non molto diverso, Lacan afferma che il desiderio implica una relazione inversa, dal momento che chi desidera in realtà sta desiderando il desiderio, cioè sta desiderando di essere desiderato: come nel primo desiderio ancestrale, quello del bambino per la madre, il bambino non desidera il corpo della madre, ma il suo desiderio. Dunque, “quello che è amato nell’oggetto è ciò di cui egli manca” (Lacan, 1996, p. 161).

S. Dalí, El enigma del deseo (1929)

Pertanto, un’ulteriore distinzione tra desiderio e amore è in relazione all’attività. Mentre il desiderio è rivolto passivamente al possesso – come soddisfacimento – l’amore è tensione perenne, perché perennemente insoddisfatta: “Nell’atto amoroso, la persona esce fuori da sé” (Ortega y Gasset, 1941, p. 554). Per Ortega l’amore è la massima prova che la natura dà perché ciascuno vada verso l’altro. E, su questo punto, sembra nuovamente essere lontano da Lacan, che lega il desiderio all’alterità, anzi il desiderio è il soggetto che muove verso l’altro. Per Ortega, al contrario, non è la cosa ad andare verso me, ma io verso di essa.


Ricordando Agostino, “amor meus, pondus meum”, il mio amore è il mio peso: è la gravitazione verso l’oggetto amato – contrariamente alla risposta umoristica di Einstein alla lettera di Frank Wall del 1933 – “la gravitazione non può essere ritenuta responsabile dell’innamoramento” (Einstein, 1981, pp. 53-54). No, l’amore non è leggiadro volo di ape, ma fardello di impreviste conseguenze: “Perché l’amore […] risulta per chi ne è coinvolto un peso così dolce?”, domandava Heidegger alla sua allieva Hannah Arendt (Arendt, 2001, p. 4). L’impossibilità di soddisfare l’amore era perfettamente resa da Heidegger nella prima sua lettera ad Hannah Arendt, quella del 10 febbraio 1925:

Cara signorina Arendt! Questa sera devo tornare a farmi vivo con lei e a parlare al suo cuore. […] Il fatto che lei sia stata mia allieva e io il suo insegnante è soltanto l’occasione esteriore di quello che ci è accaduto. Io non potrò mai averla per me, ma lei apparterrà d’ora in poi alla mia vita, ed essa ne trarrà nuova linfa (Arendt, 2001, p. 3).

L’impossibilità dell’amore e tuttavia il non poter sottrarvesene rendono il senso di una tensione insoluta, che tante pagine, di amori fittizi o reali, hanno raccontato, da Pietro Abelardo ed Eloisa a Lou Salomé e Paul Rée (e poi Rilke e Freud), a Romeo e Giulietta. Allora dev’essere vero che “l’amore si presenta come delizioso dolore, come avventurosa ferita” (Ortega y Gasset, 1952, p. 55)

M. Chagall, Birthday (1915)

Emerge l’idea, che è già prima un’intuizione, avrebbe detto Bergson, che l’amore sia tutt’altro che un’esperienza puramente gioiosa, diremmo, sentimentalmente sicura: ma chi ha amato sa che più si ama, più forte può giungere il dolore. Perciò Ortega prende le distanze da Spinoza, che nello Scolio della Proposizione 13 (Parte III) della sua Etica, scrive che “l’amore non è che gioia associata all’idea di una causa esterna”: è evidente che l’amore possa anche essere tristezza e, forse, si accompagni alla sofferenza assai più spesso che non. Lo spiegava bene anche Nussbaum (2004), quando ricordava che a volte finiamo per amare oggetti che sono causa della nostra stessa sofferenza o che addirittura non consiglieremmo mai ad alcuno.

Ma chi preferirebbe essere ignorato anziché provare un amore turbolento? Del resto, annotava la principale scrittrice brasiliana, “l’amore è la grande delusione di tutto il resto. […] Ci sono quelli che si rendono disponibili all’amore, pensando che l’amore arricchirà le loro vite personali. È il contrario: l’amore, alla fine, è povertà. L’amore è non possedere. L’amore è finanche la delusione da ciò che si pensava fosse amore. E non è premio, perciò non rende vanitosi, l’amore non è premio” (Lispector, 1999, p. 57). E lo sapeva bene Julie Lespinasse, che nella lettera indirizzata a Guibert, scriveva: “Je vous aime comme il faut aimer, dans le désespoir” (Lespinasse, 1809, p. 98). 


L’amore è centrifugo, va dal sé all’altro, sebbene potrebbe sembrare che sia l’oggetto a stimolare, col desiderio, il soggetto; ma in realtà non vi è una excitación, bensì una incitación: l’amante è incitato a inseguire l’amato: “Nell’amare abbandoniamo la quiete e il posto dentro di noi, e migriamo virtualmente verso l’oggetto. E questo continuo migrare è amare” (Ortega y Gasset, 1941, p. 556). L’amore che è tensione verso l’altro, come migrazione continua, ci rende nomadi dell’esistenza: siamo continuamente innamorati, pronti a vagabondare in cerca del flusso d’amore. Perché in realtà, l’amore è proprio una fluencia, un fluire continuo, uno sgorgare di materia anímica che non conosce sosta. Si ricordi: l’amore, diversamente dal desiderio, è un eterno insoddisfatto. Non s’arresta quando trova l’amato, ma inizia un pellegrinaggio dell’anima, tra indicibili sofferenze e impagabili gioie, tra voli pindarici e depressioni caspiche. Quindi l’amore non è un golpe, come un colpo di fulmine, ma è direzione-verso e direzione-sempre.

L’amore è, quindi, un moto perpetuo centrifugo, attivo, diretto verso l’oggetto, senza sosta, senza possibilità di soddisfacimento. È aporia. Non è allegria, ma non è tristezza: chi è allegro, al pari di chi è triste, subisce il sentimento, mentre l’amore è affanno, instancabile ricerca dell’altro, lotta per la sua affermazione (si pensi a chi ama la patria ed è pronto a combattere e morire per essa). Allora “amare è vivificazione perenne, creazione e conservazione intenzionale dell’amato” (Ortega y Gasset, 1941, p. 559); amare è impegnarsi a mantenere l’oggetto amato in esistenza, “non ammettere […] la possibilità di un universo in cui quell’oggetto sia assente” (p. 559). Torna Nussbaum, secondo la quale l’amore è la proiezione di un senso a partire dal soggetto, l’attribuzione di un’importanza a partire dal soggetto: io ti amo significa, in fondo, che ha un senso amarti, che amarti mi fa stare bene o, almeno, mi dà un qualche equilibrio e tiene in orbita il mio mondo.

Ma questa peculiare essenza dell’amore è anche ciò che lo rende immediatamente convertibile nel suo opposto, l’odio. Non solo l’odio è un amore che vuole distruggere, corrodere, annientare, ma è la prova che l’amore è sempre a partire da sé. Certo, l’amore è anche sempre verso l’altro, come spiega Ortega, ma questo moto centrifugo trova la sua energia nel sé che vuole espandersi, che chiede riconoscimento e senso: per questo, quando l’amato fosse incapace di corrispondere l’amore o ne tradisse il significato, cioè si ponesse come delusione d’amore, non avrebbe modo di evitare l’odio, come un calzino rivoltato. 

Così, l’amore richiede una duplice forza centrifuga: che ognuno ami e sia amato. Una delle condizioni più meste è quella dell’amore non corrisposto. Come pianeti lontani, che intrecciano le loro orbite fredde e solitarie, l’amore è un’ansia di compagnia: “Da questo fondo di radicale solitudine che è, senza rimedio, la nostra vita, emergiamo costantemente con un’ansia, non meno radicale, di compagnia. Desideriamo trovare quella persona la cui vita si fonda integralmente, si compenetri con la nostra. L’amore autentico non è altro che il tentativo di barattare due solitudini” (Ortega y Gasset, 1957, p. 108) – come perfino nell’isolamento pandemico.

E. Munch, Separation (1896)

Dev’essere questo il destino dell’anima umana, dopo tutto: amare, follemente, disperatamente, senza risparmio, cedere alla follia e alla disperazione dell’amore per evitare di cadere nella follia e nella disperazione di esser soli.

Riferimenti bibliografici

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