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L’ombra e la grazia: i metaxù di Simone Weil

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La creazione è provocata dal moto discendente della pesantezza, dal moto ascendente della grazia e dal moto discendente della grazia alla seconda potenza”.

Pensiamo per un sol secondo alla parte più oscura, caotica, indistinta, mescolata della materia, al dionisiaco, alla Nύξ più lunga che possa esistere, alla pesantezza dei corpi che si oppone manicheisticamente alla parte più chiara, iridescente, formata, apollinea, alla lievità del giorno più pacifico, serafico che possa esservi.

Secondo la Teogonia di Esiodo la Notte aveva generato tre figli (ed altri): i primi due Αἰθήρ ed Ἡμερα , ovvero la luce e il giorno, contrapposti a θάνατος, la morte.

W.-A. Bouguereau, La Nuit (1883)

Meditiamo, dunque, su degli enti capaci di nutrirsi essenzialmente di luce: tali esseri vivranno in uno stato di grazia. Meditiamo su degli enti capaci di nutrirsi essenzialmente di ombra: tali esseri vivranno in uno stato di dissolutezza.

La creaturalità, nella sua interezza, totalità è parcellizzata: si palesa un’anima retta da leggi analoghe a quelle della pesantezza materiale.

Riflettendo sulla natura umana e la misticheggiante tensione, quasi avvertita come necessaria, alla alterità divina, Simone Weil, tra il 1940 e il 1942, comincia una disamina diffusa, nelle pagine del suo diario personale, di questioni dall’eminente carattere religioso-filosofico. Negli anni della composizione studia il sanscrito e affronta lo studio delle Upanishad.

Le pagine sono ricche di suggestive metafore-sentenze e di riferimenti a culture, società e tradizioni diversificate ; queste si intrecciano con continui andirivieni temporali. Lungi dall’essere un mero sfoggio del suo eclettismo, di una narcisistica esibizione della sua erudizione, gli scritti in questione sono emblema di una sublimazione in vista di un unico traguardo: l’interpretatio sovrannaturale di ciò che è naturale.

Nella visione di Simone Weil, due forze imperano sull’universo: la luce e la pesantezza.

Così bisogna pregare, soffrire, patire, portare la croce, accettarla, fare silenzio, partecipare al cosmico lamento: sembra a tratti di leggere Kierkegaard. Scottanti, crude sono le parole usate. Ci esorta all’agonia che è

“la suprema notte oscura, della quale anche i perfetti hanno bisogno per l’assoluta purezza. Per questo meglio che sia amara” (Weil, 1940-42).

Misha Gordin (1985)

La vita è abbandonata alla dismisura e la filosofa vuol porre la misura, il métron (Μέτρον ἄριστον, “la misura è la miglior cosa” – massima attribuita a Cleobulo) in un Israele insozzato e atroce, tale a partire da Abramo, ad eccezione di qualche autentico profeta, in un Israele eletto per poi essere quel che è stato: il carnefice di Cristo. La giustizia deve essere applicata in una Roma qual

“grosso Animale dal carattere ateo, materialista, che adora soltanto se stesso” (Weil, 1940-42).

In un quadro siffatto, il dolore morale conducente alla morte, salva l’esistenza, è battesimo, pura redenzione dal declino, è essenza dell’innocenza dello stato di natura pre-lapsaria.

Ma essere innocenti non vuol dire esser felici: significa sopportare il peso di tutto l’universo, gettando un contrappeso.  Usciamo dalla caverna, come ci suggeriva già Platone, per stare dentro e fuori come la Weil (cristiana nel profondo del cuore ma fedele di fatto agli atei suoi amici e alla grecità), attraverso l’esercizio filosofico che ci insegna a morire ogni giorno. Attraverso la prece riflessiva si coglie la perpetuità che ci strappa, fino all’eternità.

Veniamo purificati nell’accettare la morte in quanto simbolo del distacco totale (ormai avvenuto): la mortificazione del sé, la perdita dell’egoità (“Ichheit” direbbe Fichte), per eliminare l’epigonia. La miseria degrada: permette che io sia io. Ma nell’io non v’è alcuna fons energetico-vitale alla quale si può giungere. 

Non è necessario pertanto distruggere, piuttosto discreare, non portare dall’essere al non-essere, quanto passar dal creato all’increato. Bisogna sradicarsi sia socialmente che vegetativamente.  Ma d’altronde cosa siamo? Siamo una piccolissima parte che deve imitare (e sussistere con) il tutto. Ebbene, l’anima del mondo: lo spirito che permea l’Universo, quello spirito dal quale siamo tratti e con il quale dovremmo vivere in comunione, in una forma di panismo.

“L’atman. Che l’anima di un uomo prenda per il corpo tutto l’universo” (Weil, 1940-42).

Se dovessimo, poi, distruggere qualcosa, qual sarebbe considerata sacrilega nella medesima azione? Non di certo ciò che è infimo poiché non ha valore alcuno. Nemmeno ciò che è supremo perché non lo si può nemmeno tangere. È sacrilego distruggere i metaxù, qual motivo dell’esistere stesso del bene e del male. I veri beni sulla Terra sono metaxù.

Un qualsivoglia uomo che ne sia privato, non si sentirebbe nemmeno più un uomo. Ma cosa sono i metaxù? Materialità appartenenti all’umana specie che apportano benessere: le case, le culture, le tradizioni. Ma il temporale non acquista senso se non mediante lo spirituale: ecco la chiave di volta.

Non limitiamoci alle cose, squarciamo il velo che vi si trova accanto, ed attingiamo alla suprema sorgente: quel Dio che dobbiamo amare, nel dolore, nell’angoscia, nel tormento, per ottenere, accedere all’immortalità.

Il processo, dal carattere ambiguo, che gode della polarizzazione di amore e sofferenza, condurrà l’uomo al divenire, atto della fenomenologia trattata: sol in tal modalità si schiuderà innanzi a lui l’incommensurabile, l’alfa e l’omega, l’infinito.

Riferimenti bibliografici:

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