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Chissà perché ci sono le cose. Futurama, scienza, filosofia

Ad oggi certo non stupisce che nelle fantasiose vicende tratteggiate da una serie animata sia possibile rintracciare concetti e tematiche proprie della filosofia, specie se la serie in questione è a firma Matt Groening, padre dei Simpson e di Futurama. Dai capolavori del fumettista statunitense se ne sono addirittura cavati fuori interi libri votati a rintracciare, forzando spesso la mano, parallelismi tra lo sceneggiato e il pensiero dei più celebri autori.

Ponendomi per gioco su questa scia, senza pretesa di esaustività ma non senza rigore, vorrei analizzare in particolar modo un episodio, anzi, uno dei tre sketch che compongono l’episodio Reincarnazione (6×26) di Futurama, su cui ritengo valga la pena di soffermarsi, per la sua profondità – vi fanno breccia argomenti che invogliano a spaziare dagli esordi della filosofia, con i Presocratici, passando per il Fedone e il finalismo di Aristotele, sino all’immancabile Heidegger – ma anche perché non mi sembra che sia, ingiustamente, già stato fatto altrove.

Futurama – Reincarnazione (6×26)

In appena sei minuti di sequenze 8bit – la peculiarità del mini-episodio è proprio il look arcade anni ’80 – si dipana brillantemente quello che è il rapporto tra filosofia e scienza (intesa essenzialmente come fisica quantitativa), mostrando come la prima conservi, e sia destinata a conservare, un ruolo imprescindibile per la ricerca della seconda, nonostante oggi il grande pubblico sia disposto a riconoscere al solo “sapere esatto” un ruolo di autorevole guida.

Futurama – Reincarnazione (6×26)

L’episodio si apre con l’annuncio del Professor Farnsworth, il quale, rimediata una particolare lente, è riuscito a costruire un microscopio abbastanza potente da poter finalmente risalire alla struttura fondamentale della materia. Dall’osservazione di un comune pezzo di legno, attraverso il potere di ingrandimento dell’ottica, ci si imbatte dapprima in cellule, poi in molecole ed atomi e, passando per neutrini e gravitini, nello schermo si palesa infine un laconico, basilare, pixel nero: l’elemento a fondamento del tutto. 

 “E adesso, per la prima volta, possiamo riuscire a vedere il tessuto infinitesimale della materia stessa, mettendo a nudo le leggi fondamentali dell’universo”- Professor Farnsworth

Leela ironizza: “È come fissare la faccia di Dio”; il professore, suggellando in una formula  matematica quanto rinvenuto, sentenzia: Da oggi in poi non ci saranno più domande in attesa di risposta. Il pixel e l’equazione che spiegano ogni cosa, materia primigenia e legge universale del reale, si riveleranno essere in verità parecchio carenti, e – soprattutto – le domande, reputate esaurite, mal poste. 

Tuttavia l’esperimento narrato esemplifica perfettamente l’attitudine dominante nella ricerca moderna e contemporanea, oggi impelagata nei quanti, erede di un’antica tradizione che ha inizio con i filosofi naturalisti, quelli che Aristotele, non senza una punta di ostilità, definiva physiologoi. Oggi come allora, si riserva infatti alla sola causa materiale, corredata da un principio di moto, la spiegazione della totalità delle cose. Dall’acqua di Talete, ai semi anassagorei, agli atomi di Democrito, l’idea che al di sotto dei fenomeni dovesse celarsi un qualcosa di fondamentale che potesse fare della realtà molteplice un’unità organica, e che tale quid dovesse essere materiale – in tal senso non c’è sostanziale differenza tra, ad esempio, l’atomismo antico e il contemporaneo –, era stato sì un grande merito della speculazione naturalistica, ma anche un suo insormontabile limite: la materia, infatti, descrive ma non spiega, risponde al come ma di certo non al perché. 

Il fatto che tutto sia derivato da atomi chiarisce molto della realtà, ma non giustifica il perché tutto sia atomo, e neppure scavando più a fondo, zoomando inesorabilmente le cose stesse come fa il professore della nostra sitcom, si può risalire alla causa autentica degli enti: Un elementare pixel nero, ma perché un pixel nero e non altrimenti? 

La materia infatti, aveva capito Aristotele, costituisce solo una parte della spiegazione della realtà, e la meno importante, perché dev’essere costantemente qualificata dalla forma, essenza immateriale, che, a detta del filosofo, è “natura in misura maggiore della materia” (Aristotele, 1999). Una casa, ad esempio, non esiste senza cemento e mattoni, non si dà cioè in assenza della materia, ma non esiste certo in virtù dei materiali, quanto piuttosto in ragione del proprio fine: la definizione essenziale di ciò che è “abitazione” precede l’abitazione fattuale e ne guida la messa in posa, cosicché è l’astratto – nel caso citato, si pensi al progetto edilizio – a plasmare il concreto, l’immateriale a sorreggere la materia. 

E se nel mondo della tecnica quando si realizza qualcosa si conducono i materiali in ossequio all’immateriale, allo stesso modo, nel mondo della natura non ci si potrà accontentare di spiegazioni facenti capo alla sola causa materiale.

Già Platone infatti, in uno dei suoi dialoghi più letti, il Fedone, racconta di un giovane Socrate nelle vesti di “indagatore” della natura, il quale, deluso dalla parzialità di una spiegazione resa esclusivamente in termini materialistici, invano aveva ricercato nel Nous di Anassagora una causa ulteriore dei fenomeni:

“E mi pareva che egli [scil. Anassagora] cadesse nel medesimo equivoco di colui che dicesse che Socrate fa tutto ciò che fa con l’Intelligenza, ma poi, quando venisse a dire in particolare le cause di ciascuna delle cose che io faccio dicesse, prima, che io sto seduto qui, perché il mio corpo è fatto di ossa e di nervi, e perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le une dalle altre e i nervi sono capaci di distendersi e di allentarsi e avvolgono le ossa insieme con la carne e la pelle che li ricopre; e, poiché le ossa sono mobili nelle loro giunture, fanno sì che io sia ora capace di piegare le membra e per questa causa appunto io ho piegato le membra e per conseguenza me ne sto ora qui a sedere” (2018).

La ragione che il filosofo di Clazomene addurrebbe allo stare seduto in cella di Socrate, in attesa di bere la cicuta, sarebbe appunto la presenza di muscoli, nervi ed ossa che rendono possibile lo stare seduti – il come, si diceva – e non piuttosto il fatto di non voler sfuggire alla pena comminatagli dall’Areopago, rimanendo perciò in carcere. 

Spiegare il fatto di stare seduti attraverso la relativa possibilità fisiologica, sarebbe come dire che il lettore sta leggendo questo post perché la pupilla presente nell’occhio, dilatandosi e contraendosi, filtra la luce esterna che, messa a fuoco dal cristallino, è tradotta attraverso il nervo ottico al cervello ecc., quando invece, se questi si è inoltrato fin qui, è perché incuriosito, o costretto, o annoiato, o divertito, o infinite altre possibilità che seppur non si danno senza la funzione visiva dell’occhio, non si spiegano certo in ragione di questa. 

Il mezzo non è il fine: così come i materiali edilizi non spiegano l’esistenza della casa o gli occhi il fatto che si legga un romanzo, allo stesso modo, né un pixel nero, né una qualsivoglia microscopica particella di materia possono mai render conto del perché autentico delle cose: “Altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa” (Platone, 2018).

Smarrito nell’equivoco tra mezzo e fine, annegato nello sconforto della presunta sophia, a salvare il Professor Farnsworth dall’idea di aver ormai rintracciato il principio ultimativo del reale, ecco che in Futurama fa capolino la domanda fondamentale della filosofia, ed è davvero un particolare degno di nota che a palesarla sia proprio Fry, l’ingenuotto della ciurma spaziale. Il Professore infatti, insignito dell’esilarante Last Nobel Prize Ever, una volta rinvenuta l’equazione fondamentale, era caduto in uno stato di perenne malinconia dovuta alla mancanza di interrogativi cui dare risposta: aver finalmente rinvenuto la chiave dell’esistenza, pronunciando l’ultimo eureka! nella storia della scienza, aveva finito per rendere priva di senso l’esistenza stessa.  

Futurama – Reincarnazione (6×26)

Ma ecco che lo sciocco Fry, in pena per la condizione dello scienziato, mormora senza pretese: Pessimo, professore. Peccato che l’universo si sia sviluppato così e non in un altro modo, chissà perché?!. Eccola. Sebbene in questi termini possa sembrare poco familiare, se si ha dimestichezza con la disciplina, si riconoscerà in essa la domanda filosofica per eccellenza, che Heidegger ha reso splendidamente nella formula: “Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?” (Heidegger, 1990).

Così profonda da risultare paradossalmente banale, la domanda è la realizzazione filosofica ideale – pensa bene Giovanni Reale – dell’incessante chiedere perché? dei bambini, i quali, invocando instancabilmente una risposta definitiva, riescono spesso ad essere veri, seppur inconsapevoli, filosofi. Così Fry, che un po’ bambino è anche un po’ filosofo, chiedendosi banalmente “perché è così?”, rischiara la mente del Professore sull’autentico senso dello spiegare, che non può mai limitarsi al derivare fisico, ma mette necessariamente in gioco la metafisica:

Professor Farnsworth: “Fry, sei un idiota, però sei un genio. [il professore commosso bacia Fry] Perché le leggi della fisica sono quelle che sono invece di altre leggi?

Anche il Professore è entrato infine in contatto con la domanda. Certo, si rende conto dell’insormontabilità dell’autentico perchè?, tuttavia grazie ad esso la sua vita acquista nuovamente senso, venendo ripristinata la possibilità stessa di porre problemi. E per questo suo complicare, la ricerca scientifica sarà, persino nel fantasioso terzo millennio raccontato da Futurama, sempre grata alla talvolta stralunata filosofia, laddove alla presunzione dell’esatto questa contrapponga l’esuberanza dell’incerto:

Hermes: Mi dispiace per la sua vita, credo che non potrà mai sapere tutto. 
Professor Farnsworth: Infatti, Hermes. La ricerca scientifica è eterna e senza speranza. Urrà!

Riferimenti bibliografici:

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