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La tecnica e il bisogno del desiderio

E. Munch, Desire and Death

La tecnica attuale si è trasformata in ciò che io chiamo ipertecnica, la cui principale caratteristica è quella di confondere bisogno e desiderio. La conseguenza di questa confusione di bisogni e desideri è il nichilismo del desiderio o, in termini più generici, la morte del desiderio. Vediamo perché.

Severino ricorda che sin dagli albori della civiltà greca, e più chiaramente con Platone, l’essere è associato alla tecnica, cioè al fare, al produrre, ad un’attività creatrice, cioè in grado di agire o reagire. Nel Sofista, Platone scrive: “Propongo una definizione: gli enti non sono altro che potenza” (Platone, 2000e, 247D-E), avendo precisato poco prima che tutto ciò che ha potenza, o che sia predisposto a produrre qualcosa o a subire un’azione è ciò che realmente è. La tecnica implica, in ultima analisi, un nichilismo, un annientamento di ogni ente, in quanto visto solo entro un rapporto di utilizzabilità. Per Galimberti tutto questo significa che “se qualcosa non è technikón – se cioè non produce o non è prodotto, o non rientra nel processo del produrre-essere prodotto – allora non è, ossia è un niente” (Severino, 1972, p. 197).

Mi sono già soffermato sul rovesciamento prodotto dall’ipertecnica (“capovolgimento della soggettività: non più l’uomo soggetto e la tecnica strumento a sua disposizione, ma la tecnica che dispone della natura come suo fondo e dell’uomo some suo funzionario” (Galimberti, 1999, p. 345)). Qui affronto un altro problema. In effetti, è questo il vero problema della tecnica? Il dominio? L’accumulo? Non ne sono convinto.

Ma che cos’è la tecnica? Secondo Ortega y Gasset (1939), la tecnica non è la produzione mirata al soddisfacimento dei bisogni essenziali, delle necessità fisiologiche, come la fame, la sete o il caldo e il freddo. L’essere umano è tecnico perché così prova a liberarsi di questi bisogni primari, al fine di potersi dedicare al soddisfacimento di bisogni non necessari: la tecnica è la produzione del superfluo, il soddisfacimento di bisogni di cui non abbiamo bisogno, ai quali possiamo dedicarci perché, grazie alla tecnica abbiamo risolto il soddisfacimento dei bisogni primari.

G. Klimt, Giuditta I (1901)

Ma è nel superfluo che ciascun individuo decide la forma della propria vita: chi si occuperà di francobolli, chi di calcio, chi suonerà il violino, chi dipingerà. Se la storia dell’umanità fosse stata solo strutturata per il soddisfacimento dei soli bisogni naturali, sarebbe stata una vita animale; non avremmo avuto Fidia, Giotto, Dante, Galilei, Newton, Einstein; certo, non avremmo nemmeno avuto Nerone, Jack lo Squartatore o Hitler (e questo è ciò che Ortega intende con la “pericolosità” dell’essere umano, cioè il suo poter essere qualunque cosa).

È qui che nasce la distinzione tra bisogni desideri: il bisogno è ciò che è necessario e richiede il soddisfacimento – dunque, la tecnica – mentre il desiderio ricade nella sfera del superfluo – inteso nel senso orteghiano – e, come tale, non può mai essere soddisfatto, ma resta aperto alla perenne insoddisfazione. Il desiderio è tuttavia tratto essenziale nella vita umana al pari del bisogno: nessun essere umano vorrebbe vivere solo per sfamarsi o dissetarsi, ma vorrebbe vivere per mangiare bene e bere bene. Dunque, la tecnica ci aiuta non a vivere, ma a vivere bene. Pertanto, il problema della tecnica non sta nell’accumulo di potere in sé, ma in quanto ne deriva il confondere bisogno e desiderio: nella tecnica, «il desiderio viene immediatamente identificato con il bisogno. Viene confuso con esso. […] Di conseguenza, anche ciò che è essenziale per la nostra vita e ciò che è superfluo sono messi sullo stesso piano. Ogni cosa, anzi, sembra indispensabile» (Fabris, 2019, p. 48).

Questa confusione di bisogno e desiderio deriva dal progresso della tecnica, che è avanzata così tanto negli ultimi due secoli da iniziare a semplificare non più soltanto i bisogni primari, ma anche quelli non necessari: la tecnica ha iniziato a contaminare il regno del superfluo – per il quale nessuna semplificazione è richiesta – trasformando i desideri in bisogni. La complicazione del mangiare o del corteggiamento sono stati progressivamente risucchiati da questo buco nero. O forse, sarebbe meglio dire, da questa gigante rossa.

Quando la tecnica inizia ad espandersi fino a semplificare il superfluo, inizia la parabola discendente della tecnica: non ci è più utile, perché non ci fa guadagnare tempo ed energie da dedicare a ciò che desideriamo, ma ci sottrae ogni orizzonte di possibilità. Se tutto diventa bisogno, se ogni desiderio diventa necessario, non abbiamo più nulla da desiderare. È necessario mantenere vivo il bisogno del desiderio: desiderare è ciò che ci rende umani; è il passaggio dal sopravvivere al vivere e al vivere bene; è il salto dall’uomo della caverna a Dante.

Oggi abbiamo la tecnica per fare quasi tutto, ma non sappiamo più che cosa vogliamo fare. La tecnica corre più veloce dei nostri sogni e delle nostre fantasie e non sappiamo più che cosa desiderare. La digitalizzazione amplifica l’espansione della tecnica, che fagocita rapporti interpersonali, attività ludiche e ri-creative, artistiche. Per esempio, la tecnica ci ha permesso di praticare la caccia e la pesca non più per necessità, ma per sport o divertimento; quando contamina lo sport in termini funzionalistici, lo sport viene meno. Chiamo la tecnica del primo tipo (fig. 1) isotecnica (che spesso è stata e spesso è anche un’ipotecnica), mentre la tecnica del secondo tipo (fig. 2) è ciò che chiamo ipertecnica.

Fig. 1 – Isotecnica
Fig. 2 – Ipertecnica

Il regno dell’ipertecnica riduce ogni cosa a funzionamento. Siamo dinanzi a una nuova, imperante ideologia: è quella che chiamo ideologia del funzionamento (di cui ho parlato altrove), i cui capisaldi – come fossero novelle virtù cardinali – sono l’utile, il profitto, lo standard e la valutazione. Ogni cosa è solo se e solo in quanto produce o può essere prodotta, se è funzionale al processo produttivo, se è cioè utile, in un senso produttivo, dunque efficiente, ottimizzato, standardizzato, economizzato. E il risultato del processo produttivo è il prodotto, il quale è per definizione ciò che si può acquisire (su questa condizione si reggeva la teoria del valore-lavoro di Locke e la successiva critica marxista). L’acquisizione implica il consumo: la tecnica – e a maggior ragione l’ipertecnica – dà vita all’homo consumericus, pertanto l’individuo finisce per poter essere in funzione di ciò che produce e di ciò che consuma e che può consumare, cioè come produttore e come consumatore.

La società del funzionamento si regge, dunque, sulla duplice modalità esistenziale: ciò che è, è se può essere prodotto o fintantoché produce e se consuma o se può essere consumato. E “consumare” è sia da consumare (come cum e summa, nel senso di “compiere, completare, portare a termine”), sia da consumere (cum e sumere, nel senso di “prendere, adoperare”, cioè “esaurire, dissipare, distruggere, divorare”): ciò che è consumato è anche consunto. In effetti, “nella società del consumo tutto ciò che è sembra esistere solo per venir consumato. […] Se tutto vale in quanto può essere consumato, allora il suo valore consiste solo nel suo poter esser annientato” (Fabris, 2019, pp. 47-48).

Giovanni Lindo Ferretti cantava fragili desideri / fragili desideri / a volte indispensabili / a volte no: il desiderio poggia su ciò che il soggetto sogna, spera, teme e, condizione fondamentale, su ciò che non ha. Ma non solo su ciò che non ha: su ciò che non può avere o può avere con difficoltà. Il desiderio è innanzitutto desiderio di desiderare, cioè di poter desiderare ancora: per questo i desideri non sono bisogni, ma l’attività del desiderare lo è; bisogna continuamente desiderare. E il desiderio è sempre a partire dall’altro-da-sé: perciò si desidera ciò che non si ha o, sarebbe meglio dire, ciò che non si è. Il desiderio è perdita di padronanza, la prova che non sono io che desidero, ma è il mio desiderio a desiderare, come ricorda Recalcati (2018): “Il desiderio è un’erranza inquieta, un esilio permanente”. Desiderio è da de-siderare, cioè “allontanarsi dal sidereo”, dalle stelle: vagare, errare, mancare di qualcosa; e vagare, errare perché si manca di qualcosa.

F. Bacon, Study after Velázquez’s Portrait of Pope Innocent X (1953)

Se la tecnica trasforma il desiderio in bisogno, si ha tutto o, almeno, si può desiderare tutto, specialmente ciò che si può avere. In questo modo, il desiderio collassa e con esso tutto il mondo, inclusi noi: se non posso più desiderare, perché non c’è nulla che io non possa avere, non c’è più nulla che si stagli oltre, al di là dell’orizzonte dell’acquisizione (cioè, del produrre e del consumare), non posso più pensarmi oltre me stesso, non posso più trascendermi, non posso più desiderare: perché “il desiderio è sempre desiderio dell’Altro” (Lacan, 2007). Se non desidero più, l’Altro diventa presto solo un prodotto da consumare, cioè l’Altro viene annientato. E infine, io stesso mi ingurgito consumandomi in un atto di desiderio narcisistico, annientando la mia stessa esistenza. Non lo sfamarsi, non il dissetarsi per restare in vita, ma solo un disperato desiderio di vita potrà ancora mantenerci in vita.

Riferimenti

• Fabris, Adriano. 2019. Etica del mangiare. Cibo e relazione, Pisa: ETS
• Galimberti, Umberto. 1999. Psiche e techne, Milano: Feltrinelli
• Lacan, Jacques. 2007. Scritti (1966), vol. II, Milano: Fabbri
• Ortega y Gasset, José. 1939. Ensimismamiento y alteración. Meditación de la técnica, in Id., Obras Completas, Tomo V, Madrid: Taurus, 2017
• Platone. 2000. Sofista (IV sec. a.C), in Id., Tutti gli scritti, Milano: Bompiani
• Recalcati, Massimo. 2018. Ritratti del desiderio, Milano: Raffaello Cortina
• Severino, Emanuele. 1972. La terra e l’essenza dell’uomo, in Id., Essenza del nichilismo, Milano: Adelphi, 1982

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