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Per una filosofia dell’angolo polveroso – da una topoanalisi di Bachelard

Che cos’è un angolo polveroso? E può darsi una filosofia dell’angolo polveroso? Andiamo con ordine. Uno dei testi più illuminanti che abbia mai letto – e che rileggo sempre con enorme trasporto – è La poetica dello spazio di Bachelard (naturalmente riconosco che sul mio giudizio interviene il fatto che il concetto di spazio è una mia ossessione), un’analisi fenomenologica dell’angolo (polveroso). Nondimeno, questo libro, tra il fenomenologico e il poetico, è in realtà un libro d’avventura; uno dei più belli. Certo, non sono le avventure di Salgari o Verne – anche quelli li abbiamo persi da un po’. Ma è un’avventura perché ogni pagina è un’esplorazione di un mondo particolare: il mondo che nessuno nota, quello fatto di oggetti dimenticati, perfino perduti, di soprammobili brutti e scalfiti, di ninnoli, di cianfrusaglie, di cose gettate via perché rotte, soltanto in quanto rotte, come se non potessero ancora essere pienamente se stesse anche se rotte, come se non potessero essere qualunque altra cosa, come se non potessero trasformarsi in qualunque altra cosa. Uno scolapasta che diventa un lampadario, una vecchia cassetta di legno che diventa una mensola, un vecchio paio di jeans che diventa l’inizio di un piccolo orto di erbe aromatiche da mescolare in una profumatissima ratatouille.

Non è solo una questione di riciclare il materiale logoro e di dargli nuova vita. La questione è più radicale: esiste il mondo che vediamo; e poi esiste il mondo che non vediamo, che abbiamo dimenticato, che abbiamo riposto in uno sgabuzzino. Ortega y Gasset ci avvertiva: era una delle sue leggi strutturali del mondo, molto di ciò che conosciamo, la gran parte di ciò che conosciamo in realtà non lo vediamo; lo abbiamo visto, magari tanto tempo fa, e lo diamo per scontato, per acquisito. Il mondo latente, oltre l’orizzonte, è in realtà quasi tutto il mondo. Bachelard ci invita a tentare di affacciarci in questo mondo del dimenticato, del riposto, del gettato via. E a ricordarci che le vere modalità esistenziali sono quelle che si schiudono dove il definito svanisce, dove l’orizzonte scompare, dove mancano istruzioni e prescrizioni: lì tutto diventa possibile. Di tutto lo spazio che il mondo nascosto offre, per Bachelard ve n’è uno dal potenziale enorme, quasi magico: l’angolo. Ma che cos’è l’angolo? «L’angolo è la casa dell’essere» (1957, p. 169). Per Bachelard gli abitanti degli angoli, abitando un angolo, lo riempiono di immagini, di rêverie, di rimandi a vite e mondi altri. 

«Tutti gli abitanti degli angoli verranno a dar vita all’immagine, a moltiplicare tutte le sfumature d’essere dell’abitante degli angoli. Per i grandi sognatori di angoli, di buchi, niente è vuoto, la dialettica del pieno e del vuoto non corrisponde che a due irrealtà geometriche. La funzione di abitare congiunge il pieno e il vuoto: un essere vivente riempie un rifugio vuoto e le immagini abitano, tutti gli angoli sono affollati, se non abi­tati» (Bachelard, 1957, p. 171).

E. Hopper, Reclining Nude (1924)

In realtà, siamo sempre, ovunque ci troviamo, un angolo di mondo. Un’intera città è un angolo di mondo, un angolo di una nazione. Un’intera casa è un angolo abitativo, dunque una relazione col mondo. Ciascuno di noi è un angolo e dentro di sé ha infiniti angoli. Rifugi, cantucci, zone di comfort:

«Per molti aspetti, l’angolo «vissuto» rifiuta la vita, la restringe, la nasconde. L’angolo è allora una negazione dell’Universo. Nell’angolo non si parla a se stessi e, se si ri­ pensa alle ore lì trascorse, ci si ricorda di un silenzio, di un si­lenzio dei pensieri. Certo, ritirarsi in un angolo è una povera espressione, ma se essa è povera ciò accade perché ha numerose immagini, immagini molto antiche, forse anche immagini psicologicamente primitive. A volte, quanto più semplice è l’immagine, tanto più grandi sono i sogni. In primo luogo, tuttavia, l’angolo è un rifugio che ci assi­cura un primo valore dell’essere: l’immobilità. Esso è il locale sicuro, il locale più prossimo alla mia immobilità. L’angolo è una sorta di mezza scatola, per metà muro e per metà porta: sarà un’illustrazione per la dialettica del dentro e del fuori di cui ci occuperemo in un prossimo capitolo» (Bachelard, 1957, pp. 167-168).

Ma per Bachelard l’angolo non è soltanto chiusura, protezione. L’angolo è ciò che Ortega chiamava aquí: il punto da cui guardo il mondo. E ogni guardare è sempre da un qui, dal mio qui, in cui solo io mi trovo e mi ritrovo. Arnaud scriveva je suis l’espace où je suis. L’angolo occupato dal corpo proprio è ciò che Edith Stein chiamava «centro di orientamento del mondo spaziale» (1917, p. 154) o, più precisamente, «punto zero dell’orientamento» (1917, p. 127). È dall’angolo che guardo il mondo ed è nell’angolo che nascondo l’autentico essere-nel-mondo, la mia realtà radicale, la radice della vita personale. Ma se l’angolo è possibilità di serbare, di nascondere, allora l’angolo è anche lo spazio del segreto, del non rivelato. Come uno scrigno, il mio angolo non è accessibile che a pochi e solo per brevi momenti. L’angolo è lo spazio in cui nascondo ciò che è più prezioso, ma anche ciò che non può essere più esposto, esternato, comunicato, condiviso: errori, indecisioni, traumi – e Traum è anche sogno, forse quelli infranti. Nell’angolo ripongo ciò che non appare avere un immediato senso, una pronta fruibilità e comunicabilità, ciò che non può essere speso, usato, consumato.

V. Van Gogh, Un paio di scarpe (1886)

Nell’angolo allora c’è davvero ciò che più vale. Fuori da ogni fruibilità, ogni uso è dunque possibile. Ogni immaginazione, ogni stratificazione di sensi e significati può allora darsi. L’angolo è la casa dell’essere perché è dove l’essere si dà. L’angolo nega ogni mercificazione, ogni utilizzabilità. L’angolo rende possibile l’ermeneutica ed essere è essere ermeneutici. Il sognatore di Milosz, nascosto in quell’angolo tra il camino e il vecchio baule, poteva trovare mille significati:

«L’odore ammuffito di tre secoli prima, il senso segreto dei geroglifici nelle cacature di mosca; l’arco trionfale di quella tana di topi; lo sfilacciamento della tappezzeria dove si crogiola la tua schiena arrotondata e ossuta; il rumore roditore dei tuoi talloni sul marmo; il suono del tuo polveroso starnuto… l’anima, infine, di tutta questa vecchia polvere da angolo di sala dimenticata dai piumini» (Milosz, 1944, p. 242). 

R. Magritte, Le modèle rouge III (1937)

Nell’angolo l’essere ermeneutico traduce — che è portare oltre — trasferire sensi e possibilità. Le esplorazioni geografiche, quelle astronomiche, i rover su Marte sarebbero impossibili, impensabili senza gli angoli, se non fossimo tutti in un angolo, ciascuno nel proprio. L’angolo è l’inizio di ogni avventura. E il potenziale dell’angolo aumenta, secondo Bachelard, all’aumentare della sua polverosità. La polvere aiuta a coprire la datità del mondo, come uno strato di sabbia su cui scrivere frasi d’amore o su cui costruire castelli. La polvere di un angolo in un castello è la possibilità di ripensare il castello, di rifarlo, di distruggerlo e rifarlo ancora, e ancora diverso. 

M. Cattelan, Comedian (2019)

«L’angolo nega il palazzo e la polvere nega il marmo, gli oggetti logori negano lo splendore e il lusso. Il sognatore, nel suo angolo, ha cancellato il mondo in una rêverie minuziosa che distrugge, a uno a uno, tutti gli oggetti del mondo. L’an­golo diventa un armadio di ricordi. Una volta oltrepassate le mille piccole soglie del disordine delle cose in polvere, gli og­getti-ricordi mettono in ordine il passato» (Bachelard, 1957, p. 174).

Nell’angolo, nella soffitta, nella cantina nascondiamo ciò che non sappiamo più usare ma che sentiamo esserci come opportunità di essere pienamente autentici. Il non volersi liberare di cose vecchie, rotte o il trasformarsi in accumulatori seriali è l’indizio di una richiesta di autenticità, di un bisogno creativo inespresso o, forse, dell’esigenza di una qualche forma di sicurezza. Abitiamo l’angolo e lo arrediamo. Lo riempiamo degli oggetti che non hanno una funzione; perciò sono essenziali, perché non possono essere scambiati, né rimpiazzati. Sono oggetti unici, come quelli del Museo delle relazioni interrotte di Zagabria. Gli oggetti sono un modo di abitare il mondo e come tali ci interrogano:

Banksy, Art Buff (2014)

«Che cosa penserà di te, durante le notti d’inverno e di abbandono, la vecchia lampada amica? Che cosa penseranno di te gli oggetti che ti furono dolci, così fraternamente dolci? Il loro oscuro destino non era strettamente legato al tuo?… Le cose immobili e mute non dimenti­cano mai: malinconiche e disprezzate, esse ricevono le confidenze di quanto noi portiamo di più umile e di più ignorato nel profondo di noi stessi» (Milosz, 1944, p. 244).

Gli oggetti definiscono il mondo, lo cristallizzano in esperienze, ricordi, desideri. Gli oggetti sono aggettivi del nostro essere. Quelli logori, rotti, inutilizzati e inutilizzabili, in quanto tali, possono ricoprirsi di infiniti, ricchissimi aggettivi. Così, la topoanalisi dell’angolo di Bachelard risulta decisiva: il filosofo «allora si convince ra­pidamente che il mondo non appartiene all’ordine del sostantivo, ma, piuttosto, a quello dell’aggettivo! Se dessimo la parte che spetta all’immaginazione dei sistemi filosofici intorno all’universo, vedremmo apparire, in germe, un aggettivo. Potremmo dare questo consiglio: per trovare l’essenza di una filosofia del mondo, cercatene l’aggettivo» (Bachelard, 1957, p. 175). Possibilmente polveroso.

Riferimenti

• Bachelard, G. 1957. La poétique de l’espace, Paris: PUF (trad. it.: La poetica dello spazio, Bari: Dedalo, 1971).
• Milosz, O. V. 1944. Amoureuse initiation, Paris: Egloff (trad. it.: L’amorosa iniziazione, Reggio Emilia, Città armoniosa, 1979).
• Stein, E. 1917. Zum Problem der Einfühlung, Halle: Buchdruckerei des Waisenhauses (trad. it.: Il problema dell’empatia, Roma: Studium, 2009).

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