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Hopper e lo spazio sospeso: certe cose non accadono mai

Hopper e lo spazio

Hopper e lo spazio sospeso significa misurarsi con un ossimoro: in effetti, lo spazio è opportunità di accadimenti, ciò che accade, accade sempre in qualche posto, da qualche parte. Ma Hopper è l’inventore dello spazio sospeso, lo spazio in cui le cose non accadono mai. Heidegger precisava che esiste una differenza tra spazio e luogo (uno dei temi centrali del suo breve saggio Costruire Abitare Pensare del 1951): ciò che permette ad uno spazio di essere ordinato e a chi lo abita di accordarvisi sono i luoghi. Un tipico esempio di luogo, per Heidegger, è il ponte (1951, p. 100 e sgg.). Il ponte trasforma lo spazio in luogo, unisce le rive altrimenti separate da un fiume, ma lascia scorrere il fiume sotto la propria arcata. La caratteristica dei luoghi, così intesi da Heidegger, è di relazionare, ordinare lo spazio, il quale, senza luoghi, resta solo spazio astratto, vuoto: “Di conseguenza, gli spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio, ma da luoghi” (Heidegger, 1951, p. 103). In realtà, l’etimologia spiega che non esistono grandi differenze tra spatium e locum: spazio è dalla radice spa che troviamo nel greco spadion, nel tedesco spannen e anche nel latino pandere (allargare), da cui spandere, ed è rimando a stendere, estendere; luogo è da locus, che anticamente era stlocus, derivato dalla radice stal stla, da cui il greco stale e il tedesco Stelle, ma anche stare, stalla, e dalla radice strak stlak, da cui il tedesco strecken, comunque nel senso di stendere. Dunque, potremmo dire che ciò che accade, accade sempre in un luogo dello spazio. In ogni caso, esistono diversi tipi di spazio (si veda qui e qui).

Tuttavia, la peculiarità di Hopper è di rappresentare luoghi dello spazio in cui non accade quasi mai nulla, in quanto viene dipinto ciò che sta per accadere, ciò che potrebbe accadere, ma che non accade: Hopper è l’inventore dello spazio sospeso. Come in certa fotografia (quella di Kertész o quella di Atget, per esempio), in cui l’otturatore blocca l’attimo prima del gesto, così Hopper estende il tempo infinitamente. In effetti, lo spazio determina lo scorrere del tempo (come in una fabbrica o in vacanza). La rappresentazione di uno spazio, cioè dove accade qualcosa e ci si aspetta che accada qualcosa, ma in cui non accade niente, è l’essenza del disagio, del disorientamento che genera la pittura di Hopper. Quello di Hopper è uno spazio sospeso, naturalmente, non nel senso surrealista della sospensione che si potrebbe trovare in Dalí o Magritte, ma esattamente nel senso in cui è stato descritto lo spazio finora: il luogo in cui accade qualcosa; solo che in Hopper non accade mai. Già durante la produzione parigina, le strade e le scale venivano ritratte vuote e deserte, come le tre opere del 1906, Stairway at 48 rue de Lille ParisSteps in Paris; e Paris Street. Ancora, nel 1907, Notre Dame raffigura la storica cattedrale parigina senza alcuna persona intorno. Così anche nelle opere del 1909 dedicate ai ponti, Bridge on the Seine; The New Bridge; The Quai des Grands Augustins. Anche le opere successive, incentrate sui paesaggi del New England, non mostrano alcuna persona, si pensi per esempio a Squam Light (1912) e Road in Maine (1914); anche quando compaiono le case, le persone restano assenti, come nelle opere del 1923, House in Italian Quarter; Bell Tower; White House with Dormer Window; Street Corner (probabilmente l’opera che più ha ispirato l’artista Sally Storch); Houses of Squam Light, Gloucester; The Mansard Roof; House on the Shore; House at the Fort, Gloucester; Gloucester Mansion. Nel 1923 appare per la prima volta una figura umana all’interno di un’abitazione, nel dipinto Apartment Houses: è una donna di servizio intenta a rassettare; mentre nel 1924, in New York Pavements, appare una suora che spinge una carrozzina in tutta fretta.

Hopper e lo spazio
White House with Dormer Window, 1923

I dipinti di Hopper iniziano così a presentare figure di persone, spesso sole, immobili o come bloccate in una sorta di non-azione dal sapore taoista (il cosiddetto wu wei): diremmo che si tratta di persone spesso soprappensiero o totalmente assorte in un’attività, quasi sempre la lettura. C’è, dunque, un senso di estraneità, di alienazione: il soggetto non agisce, torna in sé, secondo quella operazione che Ortega y Gasset (1949) chiamava ensimismamiento, e tradotta alla meno peggio con immedesimazione in italiano: la capacità tutta umana di isolarsi dal mondo, di tornare ad un intus esclusivo, quello della propria esistenza. Per Ortega, questo luogo astratto del sé è un luogo in cui non accade nulla, in cui ci si prepara per l’azione sul mondo.

Nei dipinti di Hopper l’assenza di accadimento è segnata dalle case vuote: nulla accade senza qualcuno che faccia qualcosa. Compariranno ancora case senza persone, come nella celebre House by the Railroad (1925), di forte ispirazione cinematografica; in Adam’s House (1928); South Truro Church (1930); House by a Road (1940). Ma ormai saranno sempre più numerosi i dipinti in cui ci sarà la presenza umana: inizialmente una sola persona – a riprendere l’unico dipinto di questo tipo presente nei primi anni della sua produzione, Summer Interior del 1906: come in Eleven A.M. Sunday (1926); Automat (1927); Hotel Room (1931); Compartment Car (1938); e perfino in una sala cinematografica è come se ci fosse una sola persona, in New York Movie (1939). È nel 1932, in Room in New York e, poi, nel 1940, in Office at Night, che compaiono per la prima volta due persone nell’utilizzo tipico dello spazio che si deve a Hopper, cioè condividendo la stessa scena, ma non la stessa attività: se lo spazio è opportunità di accadimenti, i soggetti di Hopper non si trovano nello stesso spazio; ciò che accade, o che sta per accadere, non li lega, anzi li separa. Tratto comune a questi dipinti è il contesto urbano.

È l’inizio di quella “solitudine in compagnia”, che sarebbe poi stata elaborata con il concetto di “folla solitaria” (lonely crowd), l’esser soli in mezzo agli altri, ciascuno per conto proprio. Il paradosso della folla solitaria – su cui lungamente ha scritto Riesman (1953) – si manifesta già nella “dualitudine”: i quadri di Hopper, ad un certo punto, non ritraggono più soltanto individui soli, ma spesso coppie di individui soli: ma non è mai la “solitudine a due” (Zweisamkeit o, come la definisce Ortega, nuestridad, il “noi altri” (nosotros) che ci separa dal resto del mondo), perché gli individui non si legano, si danno le spalle. Il tema della solitudine collettiva è un’evoluzione, per certi versi, del classico topos dell’alienazione, dell’atomismo, della spersonalizzazione, tipiche dell’uomo appiattito di Marcuse, dell’Ulrich senza qualità di Musil, o del Bloom dell’Ulisse di Joyce; ma qui, c’è uno sfondo che ci tiene insieme, un tessuto co-esistenziale che altro non è che una solitudine convivente. È l’esperienza disorientante dell’assenza nella presenza. 

Hopper definisce lo spazio solitario: dai quadri iniziali del periodo parigino fino alla produzione matura degli anni Cinquanta, Hopper disegna lo spazio in termini di assenza; inizialmente è un’assenza fisica, come nei dipinti dedicati a ponti e scale, poi diventa un’assenza spaziale, naturalmente nel senso in cui ho precisato il concetto di spazio, come luogo dell’accadimento.  Ma lo spazio delineato da Hopper non è soltanto spazio solitario, dato dall’alienazione dei personaggi, alienati gli uni rispetto agli altri, come in Summer in the City (1950); Hotel by a Railroad (1952); Excursion into Philosophy (1955); e Chair Car (1965); quello di Hopper è anche uno spazio sospeso: i soggetti, molto spesso, non sono ritratti mentre fanno qualcosa, ma mentre attendono di farla: emblematico Hotel Window (1955), in cui una signora, vestita di tutto punto, con indosso soprabito e cappello, è seduta su di un divano, di sbieco, in una posizione che suggerisce estemporaneità: nessuno si siede così se ha intenzione di rimanere seduto.

Hotel Window, 1955

Ma lo spazio sospeso di cui parlo non è tanto in riferimento alla possibilità dell’accadimento; o, per meglio dire, è in riferimento ad un accadimento possibile perché a metà tra uno spazio chiuso e uno spazio aperto, cioè tra uno spazio di sicurezza, forse perfino di prigionia, e uno spazio di esplorazione, di opportunità, ma anche di pericolo e di incertezza. È ciò che si vede, per esempio, in High Noon (1949); Summertime (1943); Carolina Morning (1955); e, seppur in modo più implicito, già in Sunday (1926) e in New York Movie (1939) – forse il primo dipinto di questo tipo è tuttavia New York Pavements (1924), anche se lì la suora compie un rapido movimento e non è ferma in attesa, sull’uscio. Un altro esempio ancora in linea con i precedenti è Sunlight on Brownstones (1956), in cui questa volta sono due le persone sulla soglia (una delle quali è seduta sul passamano). Ancora sulla soglia, sebbene in modo diverso, Summer Evening (1947), in cui compare la figura spaziale del portico. In tutti questi dipinti, anche se in forme a volte diverse, è presente la figura della soglia: il soggetto è a metà, tra mondo esterno e mondo interno, come in un limbo, sull’uscio di casa, come in attesa di qualcosa, quasi senza sapere se uscire del tutto o rientrare (in linea con la fenomenologia della porta di Flusser). I dipinti di Hopper presentano spesso elementi architettonici divisivi: balconi, scale, porticati, porte e, soprattutto, tante finestre, spesso grandi vetrate. Si tratta di elementi con i quali Hopper divide lo spazio, segna dei limiti, come delle linee di demarcazione. Una porta separa l’interno dall’esterno, così una finestra, e un ponte, che pur collega due rive, è la prova visiva della loro originaria separazione, del fatto che ci muoviamo in uno spazio che separa e divide, quindi isola, anche quando sembra unire: il ponte va attraversato per poter realizzare l’unione, ma sui ponti di Hopper non c’è mai nessuno. E ancora, ponti e scale sono dunque opportunità di altro, di apertura, di incertezza: e i soggetti restano paralizzati, magari sulla soglia, perché nessuno può esser certo di ciò che accadrà.

High Noon, 1949

E dunque, non solo spazio sospeso, ma anche soggetto sospeso, come mostra il dipinto parigino Summer Interior del 1909 (anche se probabilmente terminato negli Stati Uniti). La parola interior comparirà in altre opere. In effetti, la dialettica di Hopper è sempre quella di uno spazio sospeso, tra un interior, un dentro, e un fuori, tra ciò che è e ciò che immaginiamo possa accadere. È a Parigi che Hopper scopre questi spazi urbani, soprattutto i ponti. I ponti dipinti da Hopper saranno molti, insieme a strade, scale, portici, vetrate e finestre. Nel dipinto del 1909 – ultimo soggiorno parigino – Hopper presenta un ponte e una scalinata: siamo a Quai des Grands Augustins, che è anche il titolo dell’opera. Ponti, scale, strade sono sempre senza persone e, nei pochi casi in cui ce ne sono, si tratta di puntini in lontananza, piccole presenze eteree e diafane. Anche le case dipinte da Hopper sono sempre desolate, senza alcuna presenza umana (si pensi alla celebre House by the Railroad del 1925, già menzionata). Bisognerà attendere il 1921, con Girl at a Sewing Machine, e poi il 1923, col dipinto Apartment Houses, per vedere per la prima volta un soggetto in un’abitazione intento a fare qualcosa (una donna alla macchina da cucire nel primo caso, una donna di servizio che rassetta, nel secondo). Ma da questo momento in avanti, Hopper presenterà spesso soggetti singoli – più raramente coppie o più persone – intenti a non far nulla, provocando nell’osservatore la domanda: che cosa sta facendo quella persona? La risposta è tremendamente orteghiana: potrebbe essere in procinto di fare di tutto.

Apartment Houses, 1923

Le grandi finestre di Hopper sono spesso immense vetrate su paesaggi esterni, non sempre identificabili: nei primi quadri sono ritratti soggetti intenti a svolgere un’attività in casa e la finestra è solo un confine marginale (ho menzionato i quadri del 1921, Girl at a Sewing Machine, e del 1923, Apartment Houses). Il primo quadro in cui la finestra compare per la prima volta come elemento di spazio sospeso, come fosse un ponte o una rampa di scale, è nel quadro Moonlight Interior (1921-1923), ma è solo nell’opera del 1926, Eleven A.M., che il soggetto, una donna nuda, è seduta ad osservare l’esterno attraverso una finestra (e dalla finestra si scorgono balconi, altro elemento dello spazio sospeso). Assai simili, nel significato trasmesso, Room in Brooklyn (1932), Morning in a City (1944), Cape Cod Morning (1950), l’iconico Morning Sun (1952), Hotel by a Railroad (1952), Hotel Window (1955), Office in a Small City (1953), Woman in the Sun (1961) – in cui intuiamo che la donna nuda stia guardando attraverso una finestra. In altre opere, in numero minore, ma molto suggestive, i soggetti sono schiacciati nella loro interiorità e la presenza di una finestra, a volte grande, sembra indicare uno spazio di opportunità che non viene tuttavia colto: è il caso, soprattutto, di opere quali Room in New York (1932), Summer in the City (1950), Western Motel (1957), Excursion into Philosophy (1959).

Le finestre sono l’anticipazione degli schermi: i soggetti rappresentati da Hopper sono il paradigma dello spettatore descritto da Debord. Nel celebre Automat – per esempio – lo spazio è sigillato, senza aperture, né porte chiaramente visibili: la grande vetrata/finestra diventa l’anticipazione di un grande schermo che, riflettendo le luci, rimanda tutto il mondo all’interno, annichilendo l’esterno, nero, buio, invisibile, perciò inesistente. Il mondo esteriore cessa di esistere e tutto si sposta verso quell’interior che Hopper aveva più volte rappresentato. Se l’esterno è nero, invisibile, non resta più nulla da dire, né alcun orizzonte di possibili esplorazioni. Come le luci, tutte uguali, che si proiettano sulla vetrata-schermo, così gli spettatori si omologano dinanzi allo standard dello spettacolo: è il dominio dell’ipertecnica. Hopper dipinge anche la nuova società tecnica: non tanto nei distributori di benzina (Gas, 1940), o nei treni (Railroad Train, 1908; D. & R. G. Locomotive, 1925; Freight Car at Truro,1931; Compartment Car, 1938 – senza considerare i diversi dipinti di edifici in prossimità di binari), ma nell’effetto della tecnica sugli individui. La vita si piega – come aveva già fatto la città – ai ritmi della fabbrica e della produzione, divenendo una simulazione della catena di montaggio: il lavoro si protrae, come in Office at Night (1940), in cui l’uomo è assorto nella lettura di un documento, forse oltre l’orario di lavoro, mentre l’impiegata – per cui posò, come spesso accadeva, Jo, la moglie di Hopper – sembra sconnessa rispetto a ciò che dovrebbe fare (cercare qualcosa in un archivio): non possiamo saperlo con certezza. In ciò sta parte del disorientamento nelle opere di Hopper; o, come scrive Lacy, “il suo parlare per iceberg” (2012, p. 18): Hopper ci mostra qualcosa, ma è solo la punta di un iceberg e quasi tutto resta sommerso e nascosto, aperto al tutto-possibile.

Siamo dinanzi a una nuova imperante ideologia: l’ideologia del funzionamento, nella quale una cosa o funziona o non funziona, non c’è molto altro da dire. È il dominio della semplificazione, ancella di ogni riduzionismo vitale, come lo è il totalitarismo, come lo è la “freddezza glaciale del ragionamento” o l’“irresistibile forza della logica” – nelle parole di Stalin riprese da Arendt (1951, p. 472). Questa immane semplificazione della vita finisce per svuotarla di progettualità: l’individuo, come nei dipinti di Hopper, resta sospeso, incapace di decidere e decidersi, come congelato tra ciò che è e tutto ciò che potrebbe o avrebbe potuto essere. L’ambientazione di Automat (1927) sembra corroborare questa prospettiva: gli “automat” erano sale con distributori automatici di cibo e bevande, un primo evidente segno di modernità familiare con Hopper. Come ricorda Erika Doss, diversi di questi automats “erano situati vicino all’appartamento e allo studio di Hopper al 3 di Washington Square North, al Greenwich Village. Gli automats permettevano di risparmiare tempo: erano luoghi puliti e illuminati, in cui gli individui urbani moderni, troppo impegnati o non inclini a cucinare potevano consumare una tazza di caffè e forse qualcosa da mangiare prima di correre al lavoro o a casa” (Doss 2015, p. 6). Nell’automat tutto è semplificato, comodo, veloce: e dunque che cosa resta da fare? Perfino togliere un guanto dalla mano (la donna nel dipinto indossa ancora un guanto nonostante sia all’interno del locale) diventa un’inutile complicazione – dunque contraria ad ogni richiesta di velocità ed efficienza.

Automat, 1927

Hopper genera in alcuni osservatori una qualche forma di disagio, o uno stupore: ci disorienta perché mette in mostra l’accadimento dell’alienazione nel momento in cui si manifesta, nell’attimo in cui si compie la semplificazione dell’ipertecnica, e il soggetto, come svuotato di ogni coscienza, diventa quasi inanimato: non vuole più perché non può più volere, non sa più che cosa volere, che cosa desiderare. Il disagio dinnanzi a molte opere di Hopper deriva esattamente da questo: Hopper non dipinge persone, ma fantasmi, o figure spettrali, come scrisse Burns (2019, p. 111); Hopper dipinge nature morte di persone. L’inquietante scenario in cui Hopper ci catapulta è quest’assenza di volontà, ciò che rende l’essere umano unico, ed anche diverso dall’animale, perché vuole e desidera anche il superfluo, non soltanto ciò di cui ha bisogno – come fa l’animale: l’essere umano desidera perseguire una passione, realizzare un progetto di vita, ridere senza che debba esservi un motivo, piangere, saltare, urlare, amare. È il senso orteghiano della società moderna, “umana senza l’uomo, è l’umano senza lo spirito, l’umano senza l’anima, l’umano disumanizzato (Ortega y Gasset, 1949, p. 178).

L’uomo ipertecnico è un abile pilota d’aereo che non sa dove volare, un guidatore fermo al volante che non sa verso dove guidare. Restiamo immobili dinnanzi ad una finestra; o sulle scale, subito dopo aver passato la soglia di casa: che cosa potrei mai voler fare lì fuori nel mondo? Il mondo ridotto a spettacolo può solo esser guardato, non vissuto. L’esistenza diventa visibile solo all’interno di una proiezione, dentro o davanti ad uno schermo, di uno spazio sicuro, chiuso, definito. Ma qualcosa s’inceppa: come personaggi in cerca d’autore, finiamo nel cortocircuito dell’autoproduzione del sé, e ci poniamo comodamente come ignari spettatori del nostro stesso spettacolo, attendendo eternamente uno spettacolo che non inizia mai. E così certe cose non accadono mai.

Intermission, 1963

Riferimenti

• Arendt, H. 1951. The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace, Orlando 1973.
• Burns, E. C. 2019. Spectral figures: Edward Hopper’s Empty Paris, in Empty Spaces: Perspectives on emptiness in modern history, University of London Press, London.
• Debord, G. 1967. La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008.
• Doss, E. 2015. Hopper’s Cool: Modernism and Emotional Restraint, “American Art”, 3.
• Heidegger, M. 1951. Costruire Abitare Pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991.
• Lacy, R. 2012. Office at Night, “The Threepenny Review”, 130.
• Riesman, D., 1953. The Lonely Crowd, Doubleday Anchor Books, New York
• Ortega y Gasset, J. 1949. El hombre y la gente. Curso de 1949-1950, in Obras Completas, Vol. 10, Taurus, Madrid 2012.

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