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“Questa lotta mi tien desto”: il conflitto interiore nella vita e nell’opera di Pavese

Dagli scritti di Cesare Pavese emerge facilmente che uno degli elementi più caratteristici della sua tonalità esistenziale fu il conflitto interiore. Il poeta, scrittore e traduttore italiano, vissuto tra il 1908 e il 1950, non solo descrisse poeticamente in molte sue opere l’inquietudine e la lotta del vivere, ma le visse e descrisse anche nella sua stessa esistenza. Lo testimoniano alcune delle sue lettere private raccolte in un piccolo volume dal titolo Non ci capisco più niente a cura di Federico Musardo.

A partire da queste considerazioni su Pavese possiamo porci delle domande più generali: cos’è che muove le fila dei conflitti che hanno come teatro l’interiorità umana? Quanto c’è della relazione con l’altro in questi conflitti interni? Qual è il senso dell’inquietudine umana? Si può vivere una vita autentica evitando la fatica della lotta?

“Questa lotta, insieme dolorosa e dolcissima, mi tien desto” – Lettere dagli esordi

Nelle lettere incontriamo un giovane Pavese che scrive mostrando già una sensibilità spiccata e malinconica. Un ragazzo ambizioso che si apre con curiosità al mondo e alla conoscenza. Sono gli anni in cui sperimenta i primi amori, i primi turbamenti esistenziali, le notti bianche e i sentimenti scomposti, oscillando tra il bisogno di solitudine e il desiderio di condivisione con gli altri.

E. Munch, Melancholy (1894-96)

Studente del liceo classico Cavour di Torino, stringe un profondo rapporto di amicizia col compagno Mario Sturani, che diventa suo confidente principale e modello nella sua formazione. Appena sedicenne scrive a lui del suo amore per la poesia: “Essa è il sentimento di tutto, del bello e del brutto, del buono e del cattivo, del giusto del falso, di quel contrasto tra bene e male che è la vita” (Pavese, 1924, pp. 11-12). Possiamo intuire come per Pavese, già nella giovinezza, la poesia fosse quell’innamorata capace di contenere, alleviare e sublimare i conflitti.

Il poeta piemontese vive con intensità questo dissidio vitale che descrisse all’amico Sturani come quella lotta, insieme dolorosa e dolcissima, che lo tiene sveglio:

Il mio male non è più la malinconia consueta […]: è una lotta di tutti i giorni, di tutte le ore contro l’inerzia, lo sconforto, la paura; è una lotta, un contrasto in cui si va affinando, temprando il mio spirito come un metallo si separa nel fuoco dalla ganga e s’indura. Questa lotta, questa sofferenza che mi è insieme dolorosa e dolcissima mi tien desto, sempre pronto, essa insomma mi trae dall’animo le opere. Molto, infatti, mi pare di aver fatto e molto, spero, farò ancora. Ebbene: […] se mai compirò un’opera grande, non dimenticherò che la tua forza mi è stata grade stimolo” (Pavese, 1925, pp. 13-14).

W. Kandinsky, Composizione su bianco (1920)

Anche Ortaga y Gasset ne La ribellione delle masse attribuisce alla lotta un ruolo fondamentale, tanto da identificarla con la stessa vita: “Ogni vita è lotta, è sforzo per essere se stessi“. Secondo il filosofo spagnolo, infatti, le difficoltà che caratterizzano la vita umana sono il motore che permette l’attivazione e l’espressione delle capacità di ciascuno. “Se il mio corpo non mi pesasse, io non potrei camminare. Se l’atmosfera non mi opprimesse, io sentirei il mio corpo come una cosa vaga, spumosa, fantasmatica”. (Ortega y Gasset, 1930, p. 125). (Per approfondire si veda anche: Filosofia della guerra: il Genius bellico di Scheler e la critica di Ortega y Gasset).

Ma c’è qualcos’altro che possiamo interpretare alla luce del pensiero orteghiano. Pavese evidenzia quanto sia di grande stimolo per lui l’amico Sturani, il primo lettore delle sue poesie, colui che le commenta e le critica. Sturani è anche colui con il quale condivide lo spazio scolastico, i momenti di evasione, colui che lo fa sentire “aspirante poeta”, colui che fa emergere la sua fragilità emotiva. In altre parole, è l’altro che lo definisce in questa fase della sua vita giovanile. Emerge dunque la primarietà del tu rispetto all’io: l’umano, anche nella sua più profonda interiorità, non esiste isolatamente, ma co-esiste con l’altro. In questo senso, l’altro reciprocante può lenire o fomentare le conflittualità interiori. Come scrive Ortega y Gasset ne L’uomo e la gente: “La mia conoscenza dei tu nel corso del tempo sfronda, lima, quell’io vago e astratto, e che in astratto credeva di essere tutto”. (Ortega y Gasset, 1957, p. 173).

“Senza lotta non si può star soli; ma star soli vuol dire non voler più lottare” – Il carcere

Nella vita di Pavese un evento significativo fu il carcere, sia quello reale, sia quello che diede titolo a una delle sue opere. Il 15 maggio del 1935 infatti venne arrestato con l’accusa di anti-fascismo e fu costretto a scontare una condanna di tre anni a Brancaleone Calabro, un paesino sul Mar Ionio. Questa esperienza biografica ispirò l’opera Il Carcere, pubblicata nel 1939. È interessante come “le due carceri” pavesiane si intreccino profondamente l’uno con l’altro. La stizza sarcastica che non risparmia nemmeno il caro Sturani, una sconsolazione che convive allo stesso tempo con l’ironia: l’umore mutevole delle sue lettere private sembra coincidere perfettamente con gli stati d’animo di Stefano, il protagonista della sua opera letteraria.

Il carcere fu per Pavese un luogo di scontro tra desiderio di gustare la solitudine e desiderio di lottare contro di essa, per incontrare l’altro. Eppure, rinunciare al contatto con l’altro, progettare un’esistenza di estrema solitudine equivale alla fine della lotta per la vita e in ultima istanza della vita stessa. “Senza lotta, s’accorse Stefano, non si può stare soli; ma star soli vuol dire non voler più lottare” (Pavese, 1939, p. 76).

In tutta la vita del poeta, insopprimibile fu il desiderio di un legame profondo con l’altro femminile, quell’altro che, nella sua particolarità, soddisfi il desiderio dell’alterità; un qualcuno con cui e per cui esistere nel reciproco amore. Nella circostanza del carcere però Stefano fa esperienza di “tutta la dolorosa insensatezza di legarsi a persone che poi non conteranno più niente” (Palma, 2022, p. 157). Quelle persone con cui aveva condiviso sparute emozioni, ma che erano rimaste sempre lontane nello spazio sentimentale, terminato il confino sarebbero state lontane anche nello spazio geometrico (si veda su questo punto Spazio, tempo, vita. Note sulla filosofia dello spazio. 1/2).

G. De chirico, Le muse inquietanti (1955)

Esistere è resistere, se non si lotta si cessa di vivere

In una lettera ad Augusto Monti, il giovane Pavese mostra come la scrittura determini la percezione della sua identità e il senso del suo esistere.

“Sono giunto al punto che o rinnovarsi o morire. […] E non posso gettarmi a vivere, non posso. Per vivere bisogna aver forza e capire, saper scegliere. Io non ho mai saputo far questo. […] Scribacchio, vomito poesie, per avere un terreno, un punto su cui fermarmi e dire “Sono io”. Per provare a me stesso di non essere nulla” (Pavese, 1928, p. 50).

Tuttavia, sembra che a un certo punto Pavese non sia stato più capace di provare a se stesso di non essere nulla. Forse non riusciva più ad accettare con pienezza quella che, in termini orteghiani, potremmo definire la sua circostanza, ma “io sono io e la mia circostanza, e se non la salvo non salvo neanche me stesso” (Ortega y Gasset, 1914, p. 39).

Quando Pavese si tolse la vita il 27 agosto 1950, l’amico Calvino fu colto di sorpresa:

“Negli anni in cui l’ho conosciuto, non aveva avuto crisi suicide, mentre gli amici più vecchi sapevano. Quindi avevo di lui un’immagine completamente diversa. Lo credevo un duro, un forte, un divoratore di lavoro, con una grande solidità. Per cui l’immagine del Pavese visto attraverso i suicidi, le grida amorose e di disperazione del diario, l’ho scoperta dopo la morte” (Calvino, 1979, pp. 133-138).

R. Magritte, Decalcomania (1966)

Calvino qui sembra rendersi conto di aver creato una definizione di Pavese che non coincideva con il suo essere più autentico, che sembrava invece manifestarsi solo dopo la sua morte. Ecco, forse Pavese non riusciva a riconoscere se stesso in quella definizione di uomo data da Calvino. Forse la vita di Pavese era costellata da tante definizioni di un io che non restituivano molto della sua realtà radicale. Quell’uomo che nella lotta, nella solidità, nell’essere “un duro, un forte” non riusciva o faticava a riconoscersi, potrebbe aver vissuto la morte come una riaffermazione del suo vero sé, della sua autenticità.

Con questo non si intende trovare una giustificazione all’ultima azione di Pavese. Tante sono le strategie con cui si possono tollerare le fatiche del vivere, ma tutte – quali più e quali meno – implicano sempre che si lotti, che ci si sforzi, che si accetti la propria circostanza. Pavese smette di vivere nello stesso momento in cui smette di lottare. Il dolore lo attanaglia, lo pervade, stroncando ogni anelito di lotta per la vita, non gli consente più di trovare un antidoto alla morte. La lotta è un antidoto alla morte.

Allora, “se la vita non vive, la vera vita vive nella guerra e nella morte. Così, comprendere la guerra rispondeva al tentativo essenzialmente filosofico di capire che cosa si potesse ancora fare per vivere autenticamente” (Vittorio, 2022, p. 12).

Riferimenti bibliografici

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