Volevo essere (im)perfetto

“Volevo essere un duro…”, così inizia la canzone di Lucio Corsi che ha colpito la sensibilità di migliaia di giovani e non, durante lo scorso Sanremo. Il cantante spiega come la canzone voglia sottolineare l’inadeguatezza che spesso si prova ad essere ciò che si è, cercando con fatica ad emulare e raggiungere uno standard che non ci appartiene, lontano dal nostro essere interiore. Questo nostro io a quanto pare non è mai abbastanza nella società che si è venuta a costituire nell’era postmoderna. Alla fine della canzone, il protagonista della stessa afferma di “non essere nessuno”, per rimarcare poi che “non sono altro che Lucio”, come a voler ora mettere in chiaro che va bene essere se stessi così come si è, accettando le proprie debolezze e fragilità. 

Da cosa viene questa tendenza a voler essere altro da sé?

Questo è un fenomeno che colpisce tanti giovani, un possibile motivo di questo evento prettamente contemporaneo è da ricondurre alle grandi possibilità che le scienze hanno dato all’uomo nella realizzazione del suo essere. In una società in cui potenzialmente si può diventare ed essere tutto si vogliono abbattere i limiti che sono insiti in noi per tendere alla perfezione (su questo argomento si veda La tecnica e il bisogno del desiderio). È da questa parola, perfezione, che nasce un meccanismo esasperante che sta annientando l’uomo in quanto tale, con le sue fragilità e le sue imperfezioni. 

In questa società che promuove l’efficienza, si è degni solo se si dà il massimo e si raggiunge fattivamente l’apice nella carriera, nelle relazioni, nella socialità. Solo se riesci a raggiungere questo standard ti puoi ritenere  intelligente e meritevole di amore e stima, altrimenti sei mediocre e non sei degno di essere guardato, amato, stimato, voluto, di esistere con le tue carenze, imperfezioni e fragilità. 

Il concetto di perfezione di cui sopra, in realtà, si è insidiato nella nostra società da molto tempo, facendosi più forte con il cristianesimo visto che si cerca incessantemente di essere degni dell’amore di Dio attraverso la messa in pratica di azioni che più ti possono avvicinare al sommo essere perfetto: bontà, misericordia, benevolenza, altruismo. 

La creazione di Adamo, Michelangelo, 1511.

Inoltre, nella società dell’efficienza postmoderna, il concetto di perfezione è andato esasperandosi in quanto corrisponde ad un dato meccanico di produzione che segue le leggi dell’efficienza. 

In questa logica ogni fallimento ed ogni errore che si compie fa emergere la propria inadeguatezza che va assolutamente eliminata. Tale meccanismo alimenta una crisi generale che de-umanizza l’essere umano che avrà come fine solo quello di superare se stesso ad ogni costo. Avremo un io che si occupa della sua esteriorità più che della sua interiorità senza mai focalizzarsi sul vero io di cui  dovrebbe prendersi cura, senza mai conoscere realmente se stesso poiché troppo occupato a rispondere alle logiche efficientiste che la società pone in essere. 

È in epoca contemporanea che si mette in forte dubbio la perfezione dell’uomo. Nel corso della prima metà del ‘900 sono stati messi in atto stermini, guerre, sono state create bombe atomiche, tutte cose che hanno mostrato quanto l’uomo oltre che perfetto è pieno di limiti, di difetti, di fragilità, di oscurità, di male. Ed è qui che nascono delle prospettive che si opponevano in modo dirompente alla perfezione umana che tanto si decantava. In particolare, la critica arrivò da parte di Heidegger. 

Guernica, Picasso, 1937.

Egli parte dal concetto di morte per evidenziare come essa coinvolga profondamente il nostro io; non è un concetto impersonale che riguarda solo gli altri. Quando si arriva a comprendere questo, cioè si arriva a comprendere il concetto di esistere-per-la-morte, si ha la presa di coscienza del proprio essere: siamo vivi qui ed ora, non dobbiamo ignorare questo nostro essere in vita ma dobbiamo approfittare di essere qua e di poter realizzare compiutamente il nostro essere. Questa consapevolezza ci aiuta ad essere meno superbi e sbruffoni, calma il nostro delirio di onnipotenza, facendoci rendere conto che siamo uomini e come tali dobbiamo vivere, accettando i nostri limiti e con umiltà cercare di fare quanto di meglio riusciamo nella nostra vita, senza però stare dietro la logica perfezionista. 

In questa visione in cui si passa dalla perfezione incondizionata all’accettazione del limite umano, si comprende finalmente che il limite o l’errore, ma anche l’imprevisto, non sono necessariamente negativi, anzi sono parti costituenti dell’essenza dell’uomo.

Il limite è stato a lungo combattuto dall’uomo, con l’ausilio di strumenti tecnici per ottemperare alle sue mancanze biologiche, ma il limite di cui si vuole parlare in questo momento non è di tipo biologico ma riguarda la sfera esistenziale. 

Questo genere di limite è intrinseco alla vita dell’uomo e non deve essere intenso come mancanza di qualcosa, anzi l’uomo è tale perché è limitato. In questa società dell’efficienza, dove tutto risponde al calcolo programmato, l’uomo deve imparare a bastarsi così com’è, con i suoi limiti esistenziali. L’accettazione del limite, dell’errore ci mette nell’ottica di una vita vera, vissuta e ci permette di imparare e di non entrare i crisi nel momento in cui siamo di fronte ad un fallimento. 

Sulla soglia dell’eternità (Vecchio che soffre), Van Gogh, 1890.

Anche Nietzsche afferma che dobbiamo sganciarci dell’ossessione dell’errore e dal sentimento della colpa che scaturisce: 

“Niente di più sbagliato che il rimorso per cose trascorse. Bisogna prenderle come sono, trarne i dovuti insegnamenti, ma poi continuare a vivere tranquillamente e considerare se stessi come un fenomeno i cui tratti singoli formano una totalità” (Nietzsche, Scritti giovanili 1856-1864, 1998).

Con queste parole, il filosofo vuole dirci che dobbiamo essere coscienti che errare è umano, accettare l’eventualità di sbagliare e fare di questa possibilità motivo di crescita interiore, non stare a crucciarsi e a stagnare nel rimorso, poiché questo tipo di atteggiamento non porta a nessuno sviluppo dell’individuo.

“La maggior parte degli uomini tradisce continuamente quell’identità che sta sperando di essere. Il che, a dire il vero, sta a significare che la nostra individualità è un personaggio che non si realizza mai completamente…che ciascuno custodisce nel più profondo del cuore. […] La condizione dell’uomo è dunque sostanzialmente incertezza” (Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, 1978).

Nella società odierna si arriva a pensare che “tanto più sei perfetto, tanto più sei felice” in realtà nella ricerca della perfezione sta l’infelicità umana, ma la vera felicità risiede nella imperfezione che ci rende perfettamente umani e nella sua pacifica accettazione. La felicità si genera da qualcosa di più profondo e non calcolabile che spesso fa riferimento al mondo dei valori che ognuno di noi si costruisce durante la sua vita.

Lucio Corsi continua affermando:

«I girasoli con gli occhiali mi hanno detto
“Stai attento alla luce”
E che le lune senza buche
Sono fregature

Perché in fondo è inutile fuggire
Dalle tue paure»

Quello che qui preme è rendersi conto che le “buche” fanno la luna tale, parallelamente l’uomo deve accettare i suoi crateri cioè le sue mancanze, le sue imperfezioni, i suoi vuoti vivendo serenamente così com’è. 

Questa consapevolezza non deve essere autoreferenziale ma una volta accettato il nostro essere dobbiamo aprirci all’altro che come noi è pieno di “buche”, di difetti. Questa consapevolezza ci deve dare modo di accettare noi e gli altri, acquisendo una totale apertura per ciò che ci sta attorno. Il limite ci induce a fare del nostro meglio, a realizzare compiutamente noi stessi anche attraverso le relazioni. L’altro, con cui comunico preliminarmente attraverso il linguaggio, viene scorto, come direbbe Levinas, mediante il suo visage. Questa espressione indica specificatamente cogliere il volto dell’altro che mi sta davanti nella sua totalità. L’altro viene accolto attraverso il visage mediante cui colgo la sua vulnerabilità, elemento che accomuna tutti. 

Il volto da cui emerge questa vulnerabilità chiama alla mia responsabilità etica, in quanto dell’altro e di me stesso io devo avere cura. 

Sarà Foucault il filosofo che metterà in risalto la filosofia della cura di Socrate. Il filosofo riprende i Dialoghi Platonici li analizza e li riconduce alla teorizzazione della filosofia della cura, affermando che sia stato Socrate il primo filosofo che si è occupato del risveglio morale dei suoi concittadini, troppo occupati a riservare le proprie attenzioni e cure per accrescere la propria ricchezza materiale invece di curarsi della propria anima e della verità, rimandando al passo 29d dell’Apologia di Socrate

È nella teorizzazione socratica del “conosci te stesso” che si rintracciano le radici del “cura te stesso”, il quale rappresenta il primo passo del risveglio. La cura di sé precede il conosci te stesso, rappresenta un principio di agitazione individuale con cui la persona costruisce la propria identità e non solo: l’individuo riesce a ripiegarsi in se stesso, cioè può riflettere su se stesso, silenziosamente. 

Inoltre, la cura è una pratica di vita e autotutela per mezzo del quale ci si trasforma e si diventa soggetti politici che vivono per la società, nella società e a servizio della società, avendo così anche una valenza educativa. 

Anche Heidegger argomenta ampiamente attorno alla questione della cura di se stessi attraverso la cura degli altri, elogia solo un tipo di cura che definisce autentica, ed è quel tipo di cura che ti da la possibilità di costruirti come essere, dove la cura assume una forma di insegnamento per l’altro e per te stesso. Si è autenticamente con gli altri quando ogni giorno li aiutiamo a scegliere se stessi con le loro vulnerabilità, fragilità e imperfezioni, giungendo ad essere ciò che si è senza costrizione alcuna. La cura è la radice primaria dell’essere umano, il fondamento dell’esistenza. È un tendere la mano verso l’altro per riconoscerlo e riconoscersi così come esseri (im)perfettamente umani.

Bibliografia

  • Foucault M., L’ermeneutica del soggetto. Corso al college de France (1981-1982), Milano, Feltrinelli editore, 2003.
  • Heidegger M., Essere e Tempo, Milano, Longanesi editore, 1995.
  • Lévinas E., Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 2023.
  • Nietzsche F., Scritti giovanili: 1856-1864, in “Opere”, Vol. I/1, 1998. 
  • Ortega y Gasset J., L’uomo e la gente, Milano, Giuffè editore, 1978. 
  • Platone, L’apologia di Socrate. Critone, Milano, Feltrinelli editore, 2021.
  • Vinco R., Antropologia del limite: dalla cultura della perfezione all’esperienza del limite come risorsa, in “Esperienza e Teologia” 17 (2003) pp. 9-21.
Author profile

Laureata in filosofia, attualmente studio scienze filosofiche all'università di Catania, ho sempre amato la lettura e a la scrittura. Tra i miei più grandi interessi rientrano la musica e i film.

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