Nudità e spersonalizzazione: l’interpretazione di Hannah Arendt sull’apolide

“Allora il Signore Dio chiamò l’uomo e gli domandò: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino, e ho avuto paura, perché io sono nudo, e mi sono nascosto” (Genesi, 3, 9,10).

Che sia nell’Eden biblico o nella quiete di una vasca idromassaggio l’uomo, da solo, in se stesso, si ritroverà sempre nella sua nudità. Lontano dall’occhio sociale che lo conosce e riconosce in quanto lo identifica o – come oggi diremmo più comunemente – lo “qualifica” in qualcosa, in qualcuno, lontano da questo sguardo – appunto – l’uomo è puro, naturale, nudo. Svestito della sua maschera pubblica, ciascun individuo non è altro che un attore la cui seconda, terza, quarta identità viene garantita da quegli spettatori con cui si relaziona. In altre parole, il soggetto umano, nel momento in cui ritorna alla sua originaria condizione naturale, si configura nella sua più totale e pervadente nudità.

Tuttavia, qui, l’intenzione di chi scrive non è quella di rimandare ad una nudità prettamente corporale, la quale è stata oggetto di svariate interpretazioni in svariate epoche e culture e i cui esiti hanno portato, ora ad un’esaltazione ora ad un vergognoso e peccaminoso tabù, l’aspetto più umano degli umani: la nudità del corpo (per una lettura più approfondita, consultare La società telematica analgesica: o del non saper più che farcene del corpo). L’obiettivo da cui muove questo contributo, piuttosto, è quello di indagare un’ulteriore e diversa interpretazione di nudità, elaborata e sviluppata da Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (1951), che ha coinvolto, nello specifico, una figura, per così dire, sub-umana del e nel Terzo Reich: l’apolide.

M. Chagall, Adamo ed Eva (1912)

Siamo a partire dalla prima metà del Novecento, quando, a seguito del primo conflitto mondiale, disoccupazione, guerre civili e inflazione causarono una crisi tale degli Stati-nazione europei che i diritti naturali finirono per essere scissi da quelli nazionali e politici garantiti dai governi. Pertanto, ad un’estesa e omogenea tutela dei cittadini di un solo Paese, adesso, si sostituiscono sempre più frequenti fenomeni di denaturalizzazione e denazionalizzazione in massa di tutti coloro i quali venivano riconosciuti – da nascenti governi totalitari, come la Germania nazista del 1933 – di origine “nemica” per lo Stato e, dunque, costretti all’apolidicità che, come asserisce Hannah Arendt, “è il fenomeno di massa più moderno, e gli apolidi sono il gruppo umano più caratteristico della storia contemporanea” (Arendt, 2009, p. 385).

 Ora, la voragine etico-politica che ha acuito il Terzo Reich consiste esattamente in un nodo cruciale: individuato il “nemico oggettivo”, quest’ultimo viene escluso giuridicamente dal suo Stato d’appartenenza e da tutte le restanti nazioni europee. Ma di più, una volta che egli viene privato dei diritti politici, che fine fanno tutti quei diritti umani e naturali che, tradizionalmente, erano stati considerati inalienabili? Già nel 1789, infatti, la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen aveva previsto che i diritti dell’uomo differissero da quelli del cittadino in quanto “inalienabili”, “dati con la nascita” e, pertanto, indipendenti da qualsiasi sistema politico e costituzionale, tuttavia, con l’avvento dei regimi totalitari, riflette Hannah Arendt:

“Nessun paradosso della politica contemporanea è più pervaso di amara ironia del divario fra gli sforzi di sinceri idealisti, che insistono tenacemente a considerare «inalienabili» diritti umani in realtà goduti soltanto dai cittadini dei paesi più prosperi e civili, e la situazione degli individui privi di diritti, che è costantemente peggiorata, sino a fare del campo d’internamento la soluzione corrente del problema della residenza delle «displaced persons»” (Arendt, 2009, p. 388).

Alla perdita di un posto nel mondo, pertanto, corrisponde una perdita dei diritti naturali; alla privazione di una tutela politica e sociale segue, per lo stateless del secondo Novecento, una vera e propria spoliazione dell’umanità stessa. In altri termini, dunque, con la perdita di uno status giuridico si rivela la privazione di un’identità socialmente riconosciuta, la mancanza di una tutela personale da parte di diritti naturali erroneamente interpretati come inalienabili, si rivela – in ultima analisi – la condizione originaria dell’uomo: la sua nudità.

Così scrive Hannah Arendt:

“La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità di essere-niente-altro-che-uomo” (Arendt, 2009, p. 415).

C. Saraceni, Paesaggio con la sepoltura di Icaro (1606-07)

Il concetto di nudità che prende in oggetto Arendt, dunque, non è altro che un rimando a quella condizione umana che, spogliata, denudata di ogni riconoscimento relazionale e nazionale, si manifesta nell’isolamento. D’altra parte, chi è l’apolide se non un “uomo nudo” costretto all’esilio? Chi sono gli ebrei, gli zingari e tutti gli altri “nemici” dei governi totalitari se non individui da bandire e, dunque, secondo la logica del discorso, da spersonalizzare? Cosa sono essi se non “schiuma della terra”? (Arendt, 2009, p. 371).

Nulla di sacro, nulla di imprescindibile conserva quello stato di natura originaria dell’uomo che non fa altro che esporre al rischio e al pericolo gli stessi individui; nulla di salvifico è insito in quel sintagma di “nuda vita” che, su un piano più specificamente biopolitico, Giorgio Agamben fa risalire al greco άπλώς, nudo, con cui la filosofia prima ha definito l’essere puro:

“L’isolamento della sfera dell’essere puro, che costituisce la prestazione fondamentale della metafisica dell’occidente, non è, infatti, senza analogie con l’isolamento della nuda vita nell’ambito della sua politica” (Agamben, 2005, p. 203).

Nudo è l’uomo che non gode più di protezione politica e di salvaguardie legislative, nudo è l’uomo che non indossa più la maschera salvifica del segreto di appartenere ad un’origine diversa da quella ariana, nudo è l’apolide che viene privato dell’azione e della parola che, per Arendt, rappresentano le prerogative di una sana e libera condizione umana (cfr. Arendt, 2017 p. 197). Ma tale individuo si ritrova nudo di fronte a cosa? Beh, lo stateless del Terzo Reich si ritrova nudo di fronte al pericolo che più di tutti spaventa il soggetto umano sin dall’inizio della sua storia: la morte. Un uomo nudo è, infatti, inevitabilmente esposto alla morte, così come – magistralmente – ha scritto Simone Weil: “Un uomo inerme e nudo sul quale si punti un’arma diventa cadavere prima di essere toccato” (Weil, 1967, p. 13).

Si tratta di una nudità rispetto a quella violenza totalitaria che non conosce etica, non conosce il diverso, non conosce il fuori legge. L’apolide si ritrova nudo, dunque, di fronte al pericolo di morire perché non tutelato dalla legge, né tantomeno dai diritti umani, non è persona, ma è essere umano nella sola qualità di appartenere alla specie umana. Nessun’altra qualità, nessun’altra identità contrassegna colui che viene denudato del suo essere persona (clicca qui, per approfondire il significato etimologico e filosofico del termine), se non il fatto stesso di essere semplicemente umano.

Tra l’altro, da un punto di vista prettamente antropologico e morfologico, anche Arnold Gehlen in L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), riscontra nel primitivo stato di natura dell’uomo un’incapacità di auto-tutela, di auto-protezione:

“Dal punto di vista morfologico – a differenza di tutti i mammiferi superiori – l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel senso biologico di inadattamenti. […] In altre parole: in condizioni naturali, originarie, trovandosi, lui terricolo, in mezzo a animali valentissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi, l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminato dalla faccia della terra” (Gehlen, 1983, p. 60).

Nonostante i rispettivi ambiti di studio diversi, si potrebbe proporre un’analogia fra la terminologia di Gehlen e la disamina di Arendt nella misura in cui anche lo stateless arendtiano del XX secolo, nella sua nudità spersonalizzante, si ritrova vittima di quei “predatori più pericolosi” – come scrive, appunto, Gehlen – che sono i nazisti in Germania e i filonazisti nel resto d’Europa, veri e propri deturpatori di diritti non solo politici, ma anche e soprattutto umani e naturali.

Un uomo nudo, pertanto, è un uomo spoglio di qualità che lo ergono ad avere un nome e un cognome; è un uomo mancante e perciò stesso desideroso di una propria persona e personalità che possa essere riconosciuta e tutelata dallo spazio pubblico… un uomo nella sua “astratta nudità di essere-nient’altro-che-uomo” (Arendt, 2009, p. 415) è un individuo a cui non è riconosciuto il diritto naturale di avere diritti, fra cui il diritto alla vita. Questo il punto problematico che si è cercato di far emergere dalla trattazione storico-politica di Hannah Arendt la quale, a tal riguardo, ha scritto:

“Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene esattamente l’opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile. Questa è una delle ragioni per cui è più difficile distruggere la personalità giuridica di un criminale […] che quella di un uomo a cui sono state tolte le comuni responsabilità umane” (Arendt, 2009, p. 416).

G. Sanesi, Our lake (2022)

Da tale disamina non può che sollevarsi un interrogativo – per certi versi retorico – una riflessione etica ed esistenziale estendibile a tutte le generazioni di esseri umani e non solo a quella dei “nudi sfollati” del secondo conflitto mondiale: infatti, cosa dimostra la fallimentare inalienabilità dei diritti umani se non quell’insita precarietà e vulnerabilità tipiche del soggetto umano?

Riferimenti bibliografici

  • Agamben G. (1995) Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 2005
  • Arendt H. (1951), Le origini del totalitarismo, (The Origins of Totalitarianism), trad. it. A. Guadagnin Torino: Einaudi, 2009.
  • Arendt H. (1958), Vita activa. La condizione umana, (The human condition), trad. it. S. Finzi, Milano: Bompiani, 2017. 
  • Gehlen A. (1940) L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, (Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt), trad. it. C. Mainoldi, Milano: Feltrinelli, 1983.
  • Genesi, 3, 9,10.
  • Weil S. (1953), L’Iliade poema della forza, in Id. La Grecia e le intuizioni precristiane (L’Iliade ou le poème de la force, in La source grecque), trad. it. M. H. Pieracci, C. Campo, Torino: Borla, 1967.
Author profile

Classe '99.
Ho conseguito la maturità classica nel 2018, ad Agrigento.
Dottoressa in Scienze Filosofiche presso l'Università di Catania; collaboro per Etica-mente.

Mi astengo dal giudizio, ma non dalla ricerca del sapere.

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