Memento mori: breve riflessione sulla Pandemia e sull’uomo

S’il se vante, je l’abaisse
S’il s’abaisse, je le vante
Et le contredis toujours
Jusqu’à ce qu’il comprenne
Qu’il est un monstre incompréhensible
(B. Pascal, 2000, fr. 163).

Mortificati, avviliti dalla più umile delle creature di Dio, nascosti e angustiati dal timore dell’altro, adesso familiare vettore mortifero; malgrado le tribolazioni, un motto riecheggia dal principio della pandemia: «Andrà tutto bene», ed è proprio da queste confortanti parole che vorrei che la mia riflessione prendesse l’avvio. «Andrà tutto bene» non è una semplice formula, un dimesso mantra che ha instillato un forte sentimento di speranza in ogni italiano, grazie al quale con commozione e operosità, oggi siamo giunti molto probabilmente alla fine della crisi, ma è anche l’inno tracotante di un uomo arrogante e prepotente. Un’insolenza che si manifesta nel linguaggio con il quale abbiamo descritto questa crisi con un lessico di guerra, che mal si addice, a mio avviso, alla situazione che stiamo vivendo. Con leggerezza abbiamo trasformato il virus nel nostro nemico: «Andrà tutto bene, lo sconfiggeremo!».

Come se quest’ultimo, guidato da una propria intenzionalità, ci abbia attaccati per crudeltà o per ammonirci sulla nostra sconsiderata condotta; niente di più lontano dalla verità. Nessuna intenzionalità, nessuna consapevolezza, nessuna volontarietà, ma semplice e pura necessità. La pandemia mostra che il virus agisce e si comporta seguendo la sua più intrinseca natura; niente di più, niente di meno. Ciononostante, l’imperativo categorico è uno ed uno soltanto: «Debellarlo». Un comprensibile sentimento di sopravvivenza grazie al quale l’uomo, e con lui tutti gli esseri, tendono a preservare la propria specie e la propria eredità genetica, messi a dura prova da una pandemia.

Tuttavia, la locuzione «andrà tutto bene» non cela soltanto la giusta pretesa della specie umana al diritto di sopravvivenza, ma al suo interno si nasconde un altro sentimento, che poco ha che fare con il genuino desiderio dell’uomo di permanere in questo mondo. Un sentimento, o meglio una convinzione, che affonda le sua radici nella grazia prometeica per la quale l’uomo faber, grazie al fuoco della tecnica, si erge su tutti gli esseri che popolano questo mondo e sulla natura stessa. Un re che da secoli spadroneggia incontrastato, distruggendo e saccheggiando quella natura un tempo madre benignissima, ora, invece, vittima degli svaghi e dei trastulli di un despota dagli insaziabili appetiti.

Pandemia
J. Cossiers, Prometeo ruba il fuoco, (1637)

La pandemia non fa che rivelarci quanto l’uomo si sia allontanato dalla natura e, di riflesso, dalla sua più autentica essenza. L’angoscia provata in questi mesi testimonia perentoriamente quanto l’uomo sia oggi estraneo non solo alla natura dalla quale viene al mondo, ma sempre più estraneo a se stesso. La sospensione delle nostre abitudini ci ha catapultati in una realtà nuova e per certi versi spaesante. Nel silenzio assordante delle nostre case, abbiamo scoperto dei coinquilini scomodi e sconosciuti: noi stessi.

Così come la mitologica statua di Glauco, la quale, abitando gli abissi, si ricoprì con il passare del tempo di incrostazioni e sedimenti fino a perdere la sua forma originaria, l’uomo, abbruttendosi, si allontana sempre più dalla sua più intrinseca essenza fino a scordare persino il suo nome. Da secoli ostentiamo con saccente pedanteria il motto delfico «conosci te stesso», ma in verità lo evitiamo sistematicamente, glissando con cura su quest’ardua e imbarazzante questione, convinti del fatto di possedere già la risposta.

D’altronde, chi non conosce se stesso? Educati ed allevati secondo il principio dell’autodeterminazione individuale, certi della nostra singolare irripetibilità, non ci accorgiamo, come ammoniva Rousseau, di vivere in un mondo in cui «regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità» in cui «tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo: senza posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio. Non si osa più apparire ciò che si è; e, in questa costrizione continua, gli uomini, che formano quel gregge che si chiama società, posti nelle stesse circostanze, faran tutte le stesse cose» (J.-J. Rousseau, 2013, p. 54).

“La partita a scacchi” – I. Bergman, Il settimo sigillo (1957)

Sradicati dalla nostra originaria natura abbiamo ricostruito il nostro essere a partire dalla nostra ragione e dalle nostre agili mani, con le quali abbiamo creato la tecnica: l’instrumentum regni che ci ha resi invincibili. Così forti da poter uccidere gli dèi, così forti da poter uccidere la natura. Guarniti dal fuoco del figlio di Giapeto, col quale quest’ultimo liberò l’umanità «dall’essere dispersa dalla morte», ci illudiamo di essere delle invulnerabili divinità sulla terra. Ciononostante, non siamo che dei visionari; falsifichiamo la nostra realtà fino ad ingannarci che la menzogna corrisponda alla verità. Eppure, gli antichi e saggi greci avevano ben chiara la vera essenza dell’uomo, in particolar modo quella dei suoi limiti. 

Dalla unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dèi impastando la creta con acqua del Panopeo, fiume della Focide; e Atena soffiò in essi la vita (Esiodo, Teogonia, 211-32). 

Dal fango Prometeo plasma l’uomo, ma non lo forma «a immagine» degli dèi. Ciò che distingue gli esseri umani dalla divinità è il loro essere temporalmente limitati; questa precarietà è la connotazione che definisce  l’uomo nella sua essenza più propria.

Ogniqualvolta i greci si riferivano all’uomo nelle loro opere, non potevano esimersi dal congiungere al termine uomo (ἄνθρωπος) anche il termine mortale (θανάσιμος). Una consapevolezza del limite, che troviamo anche nel mondo latino; nel famoso mito riportato da Igino nelle Fabulae, reso poi famoso dall’uso fatto da Heidegger in Essere e tempo, ritroviamo ancora una volta la dimensione mortale dell’uomo. La diatriba onomastica spinge Saturno, ovvero il tempo – giudice infallibile della precarietà umana – che il nome con il quale si dovrà chiamare la creatura plasmata dal fango dalla Cura dev’essere uomo, poiché di humus egli è composto. Siamo fango, anima/ragione ma, soprattutto, tempo/finitudine.

F. Goya, Saturno devorando a su hijo (1821-1823) – particolare

La pandemia ci ha destati dal nostro sogno di potenza rendendoci l’obliata mortalità. L’angoscia provata in questi mesi non è paura che, per suo statuto, è sempre paura di qualcosa di determinato. Essa è, invece, il sentimento attraverso il quale abbiamo la percezione del nostro limite.

Se prima della pandemia il nostro essere si espandeva in lungo e in largo, senza porsi limiti e senza avere confini, continuamente alla ricerca di un diversivo che distogliesse l’attenzione dalla sua effimera natura, durante la pandemia, invece, le limitazioni e i protocolli sanitari hanno oppresso questo slancio catapultandoci in una realtà angosciante nella quale, senza più i divertimenti e i diversivi della nostra quotidianità, abbiamo dovuto affrontare la consistenza del nostro limite; ovvero la misura della nostra vulnerabilità e della nostra finitudine.

Come scriveva Pascal: «Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo». Non siamo che una canna pensante la cui unica disgrazia è il saper pensare e poter comprendere il nostro limite; tuttavia, anche «se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile di ciò che l’uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla» (B. Pascal, 2000, f. 231).

Ecco che l’uomo è una medietà, un essere in equilibrio fra la miseria e la grandezza, e se solo riuscissimo a rimanere tali potremmo dirci umani. Solo comprendendo il nostro limite, potremmo integrarci in un mondo che sempre più ci sta diventando ostile; non per sua scelta, ma perché, proprio come un organismo che rigetta un organo a lui estraneo, non riesce più a riconoscerci come parte di sé. La verità sta nel fatto che l’uomo è il virus alieno e che la pandemia di Covid19 non è che la risposta di una natura che è viva e che cercherà, malgrado noi, di sopravvivere. Dovremmo dar retta alla Natura di Leopardi che, con coscienziosa asprezza, disincanta il povero islandese:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei (G. Leopardi, 2010, p. 380).

Concludendo, come diceva il matematico Ian Malcom nel film Jurassic Park: «Se c’è una cosa che la storia dell’evoluzione ci ha insegnato è che la vita non ti permette di ostacolarla. La vita si libera, si espande in nuovi territori e abbatte tutte le barriere dolorosamente, magari, pericolosamente, ma… Tutto qui». 

Riferimenti bibliografici

  • Pascal, Blaise. 2000. Pensées. Parigi: LGF
  • Rousseau, Jean-Jacques. 2010. Discorso sulle scienze e sulle arti (1750). In Discorsi. Milano: BUR ebook
  • Leopardi, Giacomo. 2010. Dialogo della Natura e di un Islandese. In Operette Morali (1827). Milano: BUR ebook

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