Manhattan

La città digitale

Non è certamente una città digitale, ciò che Woody Allen vede e racconta della sua New York nell’apertura di Manhattan: “Adorava New York, anche se per lui era una metafora della decadenza della cultura contemporanea. Com’era difficile esistere, in una società desensibilizzata dalla droga, dalla musica a tutto volume, televisione, crimine, immondizia…”

L’inizio del film probabilmente più rappresentativo dell’universo Allen non è dopotutto lontano da quanto Simmel andava scrivendo 76 anni prima, quando delineava il primo ritratto dell’homo urbanus, cioè dell’uomo contemporaneo – perché fuori dalla città sarà via via più difficile trovarne di esseri umani (secondo uno dei molti report, per esempio questo della Nazioni Unite). Simmel spiegava che “la base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori ed interiori” (1903, p. 19).

G. De Chirico, Piazza d’Italia (1960)

Potremmo dire, dunque, che l’uomo urbano coincide, tutto sommato, con l’uomo metropolitano. Ma dinnanzi a quale uomo ci troviamo? L’essere umano urbano vuole emergere tra l’acciaio e il cemento della città, essere trasparente come le sue facciate in vetro, ma spesso finisce per essere aridamente ruvido come una striscia d’asfalto, da percorrere a folle velocità, con sprezzo del pericolo e senza una destinazione. La città contemporanea vuole essere sintesi di organizzazione ed efficienza, ma i suoi piani e le sue linee geometriche tagliano fuori, isolano, escludono. 

Lo hanno lungamente spiegato i maestri dell’urbanistica, da Lefebvre – con la sua Révolution urbaine – a Jacobs – che ci ha raccontato Morte e vita delle grandi città (americane) – a Sennett o De Carlo, il quale si domandava: “Hanno ancora senso le piazze oggi, e per chi lo hanno? […] La piazza non ha più senso […] in tutte le città o loro parti che sono state adeguate alla presenza incontrollata delle automobili. Questo ha distrutto il rapporto tra pieni e vuoti e di conseguenza ha separato le attività umane. In questo tipo di città nessuno si incontra più nelle piazze e alcuni forse non si incontrano più del tutto” (De Carlo, 1988, p. 4).

La città è processo, vita, perfino confusione. La città non deve dividere, separare, ma favorire incontri, scambi, mercati e mercanti. È la grande contrapposizione tra città aperta vs città chiusa, in cui riecheggia la celebre contrapposizione di Popper che faceva valere per la società tutta. La città non è un’azienda e men che meno è quell’azienda che si regge su catene di montaggio, ottimizzazioni produttive e robotizzazioni.

J. Mann, NYC32 (2016)

Tuttavia, Le Corbusier, il razionalismo, la Brasilia di Lúcio Costa tornano grazie alla digitalizzazione pervasiva della vita. Il computer rende ogni cosa digitalizzabile, cioè trasmissibile e manipolabile; e, per esserlo, deve essere economica, efficiente, deve cioè funzionare. Il modello standard per la comunicazione di Shannon e Weaver è un modello matematico e tutto il mondo digitalizzato diventa una sequenza binaria, in cui si è o 1 o 0, acceso o spento, vivo o morto. Nessuno spazio è più concesso al complicante essere umano – il più complicante degli animali, secondo Piovani; il mondo analogico dell’ermeneutica, del simbolo, dell’allegoria, perfino del mito, scompare, perché non sa come entrare in una sequenza numerica. Eppure l’etica urbanistica va in direzione delle ethical cities, le quali sono perfino definite smart cities: tecnologiche, resilienti, predittive, informatizzate e informative, ma forse davvero poco formative.

Il tessuto della città digitalizzata inghiottisce i rapporti individuali, che diventano aridi, strumentali, retti sulla ragione calcolante di natura economica: “Non ho tempo per passare”, “sei hai 5 minuti, ci vediamo”, “è troppo lontano per venire”, “no, non vado lì, non c’è mai parcheggio”. L’antropologia dell’homo urbanus è, in fin dei conti, quella dell’homo œconomicus. Il carattere economico-monetario della vita di città, unitamente all’individualismo, è ciò che in modo analogo porta Taylor a definire “i disagi della modernità”. I disagi sono retti sulla “ragione strumentale”, cioè un principio economico, che interpreta e piega la realtà sulla base di rapporti costi-benefici, alla ricerca di una continua ottimizzazione. I rapporti di lavoro sembrano estendersi a tutti i rapporti interpersonali e l’azione dell’individuo sembra essere giustificata solo sulla base di una valutazione economica, di una convenienza (su questo, per esempio, si veda Il diritto all’inutilità nella società del funzionamento). Non è soltanto la fine dell’ideologia, come prefigurava Bell; è la fine del sentimentalismo di Simmel o dell’autenticità di Ortega y Gasset, cioè è la progressiva spersonalizzazione dei rapporti personali e, infine, l’inarrestabile inaridimento della natura umana.

L’uomo urbano, più che orologio da tasca, assume la forma di una calcolatrice, favorita nelle sue funzioni dalla mobilità che segna la vita urbana nelle società industriali moderne: “Fin dalla sua nascita, questo tipo di società ha significato mobilità […]. La mobilità ci viene in un certo senso imposta. Vecchi legami vengono spezzati. […] Ciò implica una grande crescita dei contatti impersonali e casuali, che sostituiscono le più intense relazioni faccia a faccia dei tempi passati. Tutto questo non può non generare una cultura in cui la mentalità dell’atomismo sociale mette le radici sempre più profonde. […] La nostra società tecnocratica e burocratica attribuisce alla ragione strumentale un’importanza sempre più grande. E questo inevitabilmente rafforza l’atomismo, perché ci porta a vedere le nostre comunità, e tante altre cose, in una prospettiva strumentale” (Taylor, 1991, p. 69). Come dire, l’atomismo sociale, quello vero e pernicioso, non è quello di una quarantena imposta da una pandemia (si veda, a proposito, il contributo su Virus e tracciamento sociale).

E. Hopper, Nighthawks (1942)

Ma resta ancora irrisolta una questione centrale per l’antropologia filosofica urbana e per una fenomenologia urbana: la città contemporanea rende la vita dell’uomo inautentica? Letteratura, poesia, pittura hanno fornito innumerevoli contributi nel tentativo di rispondere a questa domanda. E la risposta ha spesso assunto tinte fosche e poco promettenti. Già sul finire dell’età moderna, in Baudelaire la città è oggetto di attenta osservazione e in Wordsworth (Caws, 2013, p. 15) viene associata ai mercati e ai teatri, come luogo per definizione del commercio e dello spettacolo. Naturalmente, la narrazione è spesso dipesa dalla città: sul finire dell’Ottocento, Londra e Parigi erano le città del futuro. La Londra messa in versi da Eliot è una città in grande espansione, forse la prima vera metropoli; e il fil rouge delle narrazioni vive sul tema del contrasto tra le grandi opportunità dello sviluppo e del progresso da un lato, e la povertà, la miseria dei mendicanti — come notava Dickens — e lo sfruttamento dei lavoratori — come sottolineava un Marx moralmente disgustato (Kasinitz, 1995, p. 9) — dall’altro. Rousseau identificava nella Parigi di metà Settecento il luogo di quel contrasto e di quella diseguaglianza; “in realtà Parigi è probabilmente la città nella quale le fortune sono più disuguali, dove insieme regnano la più fastosa opulenza e la miseria più deplorevole” (1761, p. 248).

L’associazione del concetto di metropoli con quello di centro industriale che schiaccia le masse è, tuttavia, spesso una forzatura: Londra, per esempio, cresceva a dismisura come centro finanziario, del commercio e della distribuzione, già a partire dalla fine del Settecento, e non certo perché fosse una città industriale (la prima ferrovia, com’è noto, fu costruita non a Londra, ma per collegare il porto di Liverpool a Manchester e alle industrie delle Midlands e per trasportare merci, non pendolari). Londra non era solo oppressione, né il luogo terreno in cui si realizzavano i presagi della Metropolis di Lang; Londra era anche vita, come raccontava la signora Dalloway di Virginia Woolf, quasi eccitata dall’attraversare le strade di Westminster al rintocco del Big Ben: “Negli occhi della gente, il loro passo lento o frettoloso o stanco; il frastuono e la baraonda; le carrozze, le automobili, gli omnibus, i furgoni, gli uomini sandwich che si trascinano avanti e indietro ondeggiando; le bande di ottoni; gli organetti; il trionfo e lo scampanellio e lo strano canto acuto di un aeroplano nel cielo, ecco ciò che lei amava: la vita, Londra, quel momento di giugno” (Woolf, 1925, p. 4). Potrebbe quasi sembrare un brano di Woody Allen, se si trattasse di Manhattan anziché di Londra.

Ed era giugno anche quando Bloom e Dedalus si incrociavano nell’Ulisse di Joyce, mentre il signor Duffy, uno dei Dubliners, diversamente dalla spensieratezza urbana di Woolf, trovava i “sobborghi di Dublino volgari, moderni e pretenziosi” (Joyce, 1914, p. 100). La letteratura tra i secoli XIX e XX riesce a sondare il terreno dell’esistenza individuale, spesso indecifrabile, incomunicabile. Seguono solchi contorti, scavati dalle vicissitudini personali, profondi quanto la psicologia di Freud. Proust, Kafka, Pirandello, tra gli altri, tentano di scavare l’impenetrabile, tra memoria e angoscia, in rivoli che gettano ombre lunghe e ambigue. La domanda esistenzialistica sul “chi sono io?” è posta in tutti i colori possibili ed è narrata in tutte le vicende dei personaggi più improbabili, e perciò realistici, che il genio artistico abbia saputo regalarci. Ma è una domanda che resta spesso senza risposta, un problema irrisolto.

Fra Carnevale, La città ideale (ca. 1480)

Benasayag, nel titolo evocativo della sua ultima opera, si domandava – quasi retoricamente, ma anche tristemente – Funzionare o esistere? La città funziona finché resta una buona metafora della vita, cioè finché non solo funziona, ma anche esiste. La città è viva se favorisce incontri, scontri, imprevisti, fuoriprogramma e flussi esistenziali di individui, idee e sogni. Il guaio vero è che la città digitale — ancor prima di una pandemia — è il risultato di una tendenza precisa: la città stava già andando verso un processo di digitalizzazione, lo stesso che sta investendo ogni settore della vita: infotraffico, autostrade intelligenti, telecamere, sensori, droni, app per essere aggiornati in tempo reale e chissà quale altra diavoleria.

L’informatica ha esteso il suo principio di efficienza della trasmissione dell’informazione, puramente matematico, fatto di codici binari, a ogni comunicazione, facendoci perdere il vero senso dei messaggi, della relazione che è più di un mittente e di un destinatario che si passano una sequenza di numeri. Non c’è più spazio per l’interpretazione, per una necessaria euristica, per una auspicabile ermeneutica. Nessuna interpretazione. Nessuna complicazione. La digitalizzazione soppianta ogni spazio analogico, ogni possibilità di annotare, sovrascrivere, appuntare, colorare, creare. 

Riuscireste ancora a immaginare di poter giocare al telefono senza fili? Quale spazio resterebbe all’uomo se ogni messaggio, se ogni movimento, se ogni incontro, se ogni sguardo fossero pianificati, ottimizzati, se solo le comunicazioni e gli incontri efficienti potessero darsi nella vita? Se non vi fosse spazio per l’incomprensione, per l’equivoco, per la strada imboccata per sbaglio quella sera, per quel ristorante prenotato all’ultimo, per quel cinema in cui siete entrati mentre pensavate di andare in libreria, per quella deviazione per rientrare a casa, per quel fermarsi su una panchina… Riuscireste ancora a comunicare? Pensereste ancora di vivere in una città? Pensereste ancora di vivere?

Riferimenti bibliografici

  • Caws M. A., ed. 2013. City Images. Perspectives from Literature, Philosophy, and Film, Routledge, New York.
  • De Carlo G. 1988. “Hanno ancora senso le piazze, e per chi?”, Spazio e società, 42, aprile-giugno.
  • Jacobs J. 1961. The Death and Life of Great American Cities, Modern Library, New York, 2011.
  • Joyce J. 1914. Dubliners, Grant Richards, Londra (trad. it.: Gente di Dublino, Einaudi, Torino, 2012).
  • Kasinitz Ph. 1995. Introduction, in Id., ed., Metropolis: Center and Symbol of Our Times, NYU Press, New York.
  • Rousseau J.-J. 1761. Julie ou la nouvelle Héloïse, in Rousseau J.-J., Œuvres Complètes. Vol. II, Gallimard, Parigi, 1961 (trad. it.: Giulia o la nuova Eloisa, Rizzoli, Milano, 1964).
  • Sennett R. 2006. “The Open City”, Urban Age, novembre.
  • Simmel G. 1903. Die Großstädte und das Geistesleben, Koehler, Stoccarda, 1957 (trad. it.: La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 2013)
  • Taylor Ch. 1991. The Malaise of Modernity, Anansi Press, Concord (trad. it.: Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari, 2003).
  • Woolf V. 1925. Mrs. Dalloway, Hogarth Press, Londra (trad. it.: La signora Dalloway, Einaudi, Torino, 2012).
Author profile

Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.

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