Individualismo e collettivismo. Nella visione di molti sono termini antagonisti, nati in una modernità che è passata dall’elogio del progresso ad una crisi. All’interno di questa crisi si risolve il dibattito politico e culturale. Da una parte, il liberismo e la democrazia occidentale, dall’altra, il marxismo e il comunismo (sovietico, nella sua corrente maggioritaria). Ma tutto questo è anche un problema esistenziale e pratico. Un problema per l’Impiegato di De André e per Sartre.
Il soggetto per Sartre
Jean-Paul Sartre pone in luce l’azione dell’individuo, all’interno di un’intersoggettività. Ricordiamo le parole che, proprio il filosofo francese, dedica per rispondere alle critiche (mosse da cattolici e comunisti) alla propria filosofia, in Esistenzialismo è un umanismo:
Ma, se veramente l’esistenza precede l’essenza, l’uomo è responsabile di quello che è. Così il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. E quando diciamo che l’uomo è responsabile di se stesso, non intendiamo che l’uomo sia responsabile della sua stretta individualità, ma che egli è responsabile di tutti gli uomini […]. Soggettivismo vuol dire, da una parte, scelta del soggetto individuale per se stesso e, dall’altra, impossibilità per l’uomo di oltrepassare la soggettività umana. Questo secondo è il senso profondo dell’esistenzialismo (Sartre, 1946, pp. 31-32).
Ma questa prima risposta non è conclusiva: troppe volte Sartre e il suo esistenzialismo sono stati criticati per essere una filosofia pessimista, in cui qualsiasi azione diventava vana, divenendo dapprima una filosofia borghese — poiché una filosofia contemplativa e, dunque, di lusso — e poi una filosofia che ha eliminato Dio come valore universale — questo è l’umanismo ateo che permetterebbe a chiunque di fare ciò che vuole; eppure, al centro dell’esistenzialismo sartriano c’è proprio l’uomo ed il suo progetto, che è soggettività.
Soggettività che agisce e che agisce sempre in un contesto; un concetto che Sartre ribadisce anche in Critica della ragion dialettica (1960), in cui la dialettica è quel processo storico in cui il soggetto è l’uomo con i suoi bisogni, sempre all’interno di gruppi o di serie.
Storia di un impiegato: un confronto individuo-gruppo
De André – nell’album Storia di un impiegato del ’73 – riesce a ritrarre un processo di “presa di coscienza” (usando dei termini legati alla letteratura marxista) di un semplice e giovane impiegato che, all’inizio, si trova ad osservare i sessantottini francesi che preferivano ribellarsi in piena primavera, anche se per loro arrivava la prigione:
Lottavano così come si gioca / i cuccioli del maggio era normale / loro avevano il tempo anche per la galera / ad aspettarli fuori rimaneva / la stessa rabbia, la stessa primavera
– Introduzione (da Storia di un impiegato, 1973) di Fabrizio De André
Ascolta i loro canti di ribellione e di accusa alla società francese degli anni Sessanta: gli studenti ricordano agli spettatori (gli adulti francesi, in maggior parte) che sono rimasti a guardare i propri giovani ad essere massacrati sul marciapiede — una critica all’indifferenza della tradizionale società formatosi nel conservatorismo socio-culturale del “gaullisme“.
Con cinque anni di ritardo, l’Impiegato ragiona, con i suoi trent’anni che erano poco più dei loro, sull’azione degli studenti mentre è a lavoro, mentre conta i denti ai francobolli e con la fortuna di essere normale nel dire “grazie a Dio” e “buon Natale”. Poi inizia a cambiare qualcosa in lui: al di là del vetro, vede l’ideale a cui si ispirarono i sessantottini e ne accetta i punti di vista. Ma vede che loro sono già avanti, lui rimasto indietro e non ha potuto dargli una mano al momento di quel solo maggio di un unico Paese. Allora, l’azione dell’Impiegato può essere solo individuale:
Ormai sono in ritardo per gli amici / per l’odio potrei farcela da solo: / illuminando al tritolo / chi ha la faccia e mostra solo il viso / sempre gradevole, sempre più impreciso.
– La bomba in testa (da Storia di un impiegato, 1973) di Fabrizio De André
C’è dunque un confronto tra l’individuo e il contesto culturale, che è il gruppo dei giovani francesi: l’Impiegato passa dall’alienazione dei rapporti di lavoro e di produzione all’alienazione tra gli uomini. Per Sartre, l’uomo — come soggetto che produce la dialettica — può rischiare di alienarsi nella sua stessa produzione; al che, Sartre propone due tipi di alienazione tra gli uomini: quella della serie, ovvero il collettivo che è una molteplicità discreta fondata da questa pluralità di solitudini ostili; quella del gruppo, ovvero l’organizzazione di individui caratterizzata da un’unità di intenti, dove ognuno si immedesima con gli altri.
L’Impiegato di De André si immedesima con il gruppo, eppure, il suo agire – sempre rivoluzionario – è comunque individuale. Non è il momento eroico di quel gruppo che fa la rivoluzione; ma diventa l’azione di una solitudine che guarda ad un ideale di gruppo, senza però l’agire collettivo. Ecco che l’Impiegato, che è soggetto che si produce nella sua dialettica, la fa e la subisce nella sua praxis.
Un’anarchia pessimista
Sartre e Faber pensano, scrivono e producono opere letterarie, artistiche e musicali che vogliono narrare dell’uomo del secondo dopo-guerra, degli anni della Guerra Fredda e del Sessantotto. Il cantautore genovese scrive e produce musica per gli ultimi. L’Impiegato non dovrebbe rappresentare uno degli ultimi: sta nel mezzo, nella sua mediocrità lontana dal vertice del potere e lontana dalla miseria e dai rischi che gravano sulle spalle degli ultimi (tra cui anche gli studenti finiti in carcere). Sartre, da parte sua, vuole analizzare l’esistenza umana attraverso il suo agire, della sua libertà che poi è quasi sempre ridimensionata dal regno della necessità.
Sartre, nella sua Critica della ragione dialettica, fa notare come la storia delle rivoluzioni non è altro che una storia di una “serie” che si fa “gruppo” e di un “gruppo” — a rivoluzione compiuta, dopo la terza fase — corre il rischio e lo realizza diventando di nuovo una “serie”; e così via. Nonostante la sua vicinanza al marxismo e all’ideale comunista, Sartre fu sempre un anarchico in cui l’individualità aveva il suo spazio e il suo peso, mai a favore della violenza, contro la quale si scagliò più volte. Eppure, c’era una disillusione nella sua anarchia socialista: il socialismo reale, le sue premesse, rimanevano un’utopia che Unione Sovietica, Cina e Cuba non realizzarono mai.
Se Sartre lo espone nei suoi interventi pubblici e nell’opera colossale della Critica della ragione dialettica, De André lo racconta con una narrazione musicale ben riuscita che mette in risalto l’illusione dell’azione dell’Impiegato. Questo personaggio, nella sua Bomba in testa, ha ancora paura nell’agire e affida alla sua immaginazione onirica il compito di abbattere il potere.
Il primo sogno è raccontato dal brano Al ballo mascherato, in cui l’Impiegato abbatte le maschere-simbolo del potere e della tradizione: la bomba è la novità che elimina con imparzialità, non risparmiando nessuno. In Sogno numero due, l’Impiegato è dinanzi al giudice e lì comprende che in realtà ha solo fatto il lavoro del potere stesso:
Imputato, / il dito più lungo della tua mano è il medio / quello della mia è l’indice, / eppure anche tu hai giudicato. / Hai assolto e condannato al di sopra di me, / ma al di sopra di me, / per quello che hai fatto, / per come lo hai rinnovato / il potere ti è grato.
– Sogno numero due (da Storia di un impiegato, 1973) di Fabrizio De André
Il potere stesso (il giudice) gli propone una scelta, un aut-aut che è uno scacco: essere assolto (dunque, continuare a servire il potere) o essere condannato (la galera, simbolo del potere). Ed ecco il terzo sogno, La canzone del padre. Un continuo crescendo, un introspezione dell’Impiegato in risposta al giudice. Ma questi sogni che non fanno svegliare, i simboli dell’asservimento e dell’alienazione: vanno abbattuti. Ecco che l’Impiegato si sveglia dal sogno e fa una promessa allo stesso giudice: si vedranno fuori, con l’Impiegato che è ora Il bombarolo.
L’azione anarchica s’è fatta realtà, la bomba è pronta a restituire il terrore al Parlamento francese — il luogo idoneo per il tritolo e per il Bombarolo. Ma l’attentato fallisce e l’ordigno si detona in un chiosco di giornali; l’Impiegato viene arrestato e non trova l’appoggio della sua amata (Verranno a chiederti del nostro amore): le dice che non dovrebbe accettare quella mediocrità, di cui anche lei è stanca e il brano si chiude con una domanda esistenziale — Continuerai a farti scegliere / o finalmente sceglierai?
Ed è la conclusione dell’album del ’73 che rappresenta il momento più sartriano. Si unisce la libertà esistenziale dell’individuo nella coscienza del gruppo. Nella mia ora di libertà è la conclusione degna di un uomo che ha accettato di progettarsi e di subire comunque la progettazione di una dialettica storica:
Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza, / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni.
– Nella mia ora di libertà (da Storia di un impiegato, 1973) di Fabrizio De André
Vedi anche: L’etica della pietà come amore puro: un salto da Schopenhauer a De André
Riferimenti bibliografici
- Sartre, J.-P. (1946). L’esistenzialismo è un umanismo, a cura di M. Schoepflin, Roma, Armando Editore, 2014 (Prima edizione elettronica)
Classe '97, laureato in Filosofia e studente di Scienze filosofiche all'Università di Catania, con la passione per la storia, per la filosofia, per la musica e per la scrittura.