Corpo-Anima in Platone

Il sinolo corpo-anima in Platone, ossia l’uomo, è armonia unitaria-molteplice.

In cima alla piramide da cui procede la generazione, risiede l’Uno-Bene-Limite (En), che nell’opera dialogica Repubblica vien definito come “l’al di là dell’essere” e che s’impone, per tal motivo, come il punto di contrazione da cui discende l’emanazione numerico-ontica.

Tale filosofia è henologica per il semplice fatto che non “sta” semplicemente nell’immobilismo eleatico; non propende nemmeno, in modo esclusivo ed escludente, per la teoria del flusso di Cratilo. Accoglie, dunque, entrambe le visioni e cerca il “ponte” che possa collegarle eufonicamente.

Per il Filosofo, certamente, la realtà sensibile è in continuo movimento, ma deve esistere, almeno, una qualche conoscenza stabile, immutabile, per poter de-limitare; esperire; contenere. Come coniugare Parmenide e Cratilo?

Bisogna limitare l’illimitato, ossia il divenire come “a-gnosia”. La soluzione vede lo sdoppiarsi delle modalità conoscitive: il sensibile (che riguarda il mondo degli eventi) e l’intelligibile (che riguarda l’eternità). Dal punto di vista del sensibile, la conoscenza sarà particolare, adunque, dispersiva; dal punto di vista dell’intelligibile sarà, invece, possibilità di accesso all’universale, ossia alla pura identità della Idea.

Deve, pertanto, esservi un soggetto capace di compiere l’azione intellettiva in questione, che abbia capacità di riconduzione alla manenza: tale organo, che deve possedere qualità affini, per operare in un simil modo, risulta l’anima.

Z. Moravek, Esoteric Zen Universe v5 (2023)

L’anima platonica – è bene precisare – si articola in base a tre diverse funzioni: una parte tende verso il basso (impulsi del corpo, desideri della carne, dismisura mondana); una media; l’altra, infine, tende verso l’alto (la trascendenza).

In una tipica rappresentazione, l’auriga rappresenta la parte razionale; il cavallo bianco la parte irascibile; quello nero, invece, la parte concupiscibile. Nel dialogo Timeo, oltretutto, i due “cavalli animici” sono mortali contro l’auriga dell’anima, che risulta immortale. L’anima perde le ali, a causa dei due cavalli psichici, ossia le parti medio-pesanti, che tendono verso il basso, la materia, la carne, dunque il male.

N. Paci, L’Insonne (2016)

Ovviamente, ad essere responsabile della conoscenza intellettiva, per affinità e qualità, concorre l’anima che tende verso l’alto; di contro, l’anima che tende verso il basso si rifà più a una morale accostabile, ma non sovrapponibile – considerando il campo erotico –, a quella della Venere vagabonda di Lucrezio.

Tale anima è, nel suo complesso, immortale. In quanto immortale, partecipa della Verità, ma non la può conoscere nella sua interezza durante la vita terrena, a causa dell’ostacolo corporale. La triplice psyche, oltretutto, è via di mezzo, in quanto non è uguale alle idee, ma “simile” e, poiché simile, ha già-da-sempre subito degradazione rispetto all’Origine.

Così l’intelletto si rivolge (volge lo sguardo) alle idee, paradigmi oltre-tempo, che permettono lo squadernarsi dello spaziotempo. L’anima cerca e si ritrova nel contingente, nell’immanente, nel caduco soma, che, allo stesso tempo, viene rivalutato in un dialogo come il Simposio o, ancora meglio, in Fedro. In Fedro, infatti, compare una vena pessimistica: l’uomo non potrà mai accedere alla Bellezza in sé (l’Idea). 

Sì, l’anima è vita, potenza, dinamica sia cosmica sia umana; si trova incarcerata nel corpo-prigione, ma non potrà mai accedere totalmente al mondo ideale-spirituale, all’oltre, all’iperuranio, dunque, da cui tutto è “scaturito”.

Il demiurgo, il divino artigiano/ordinatore della materia caotica nonché legislatore del Cosmo, dal medesimo cratere – nel quale aveva mischiato l’essere, l’identità e la differenza, al fine di ottenere l’Anima mundi –, ricava i resti men puri, per creare le anime di ogni individuo e legarle, in numero limitato e pari, ai pianeti e al loro governo. Queste anime, poi, vengono poste su un carro celeste e il demiurgo illustra a tali anime l’ordine dello Spaziotempo, della Necessità.

W. Blake, The Ancient of Days (1794), British Museum

La stessa Necessità impone che l’anima non sia solo destinata alla dimensione ultramondana, ma anche che abbia un corpo da riempire e vivificare. È nel momento in cui l’anima comincia ad abitare tale contenitore – modellato dagli dei inferiori (arconti nella Gnosi), al fine di non essere perfetto e immortale –, che si attuano, difatti, dei fenomeni tipicamente sensibili: passioni e desideri, che vincolano l’uomo alla terra e degradano l’anima.

Ma l’uomo deve “imparare a morire” ogni giorno; deve slegare il sé dall’impero del corpo; deve attuare un totale distacco da ogni pulsione, da ogni basso sentimento, dal mondo sensibile. Con tale proposito, il dominio dell’intero corpo è stato affidato alla testa che, posta in alto, dirige con la parte razionale dell’anima l’intero ente psico-somatico.

Giusto è l’uomo che vive il corpo, domina con la ratio i suoi impulsi e che segue il “moto del cerchio dell’identico” (eterno); l’anima, in tal caso, a seguito della morte corporale, otterrà il premio di ritornare al mondo divino, dunque, al luogo suo proprio. Nella situazione opposta, l’anima, a seguito della morte del corpo, dovrà reincarnarsi fino alla totale purificazione.

J. Ferrario, Scena di iniziazione ai misteri eleusini, secondo vasi antichi greci (1819) Milano

“Ecco […] la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali […] e agognante di volare […] offre motivo d’esser ritenuto uscito di senno […] la più nobile forma di tutti i deliri divini […] Ma non per tutte le anime è agevole […] Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante […] La bellezza brillava allora in tutta luce, […] beatificata visione, noi al seguito di Giove, altri di un altro dio, ed eravamo iniziati […] e la celebravamo integri ed inesperti dei mali che in seguito ci avrebbero atteso, in misterica contemplazione […] immersi in una luce pura, noi stessi puri e privi di questa tomba che ora ci portiamo in giro col nome di corpo” (Platone, 1998, pp. 55-57).

Esistono tre casi esemplari di divina follia o mania: la mantica apollinea, l’invasamento poetico come dono delle Muse, l’iniziazione dionisiaca. Il quarto tipo di delirio sarebbe, invece, l’Eros irrazionale.

Nel dialogo Fedro Platone rivaluta il ruolo delle parti “basse” dell’anima necessarie all’elevazione. La forza propulsiva o la mania servono come ausilio alla pura “ragione” per recuperare le ali, che originariamente l’anima possedeva, e per tendere, di conseguenza, alla dimensione ideale. La follia erotica, anche se si fonda sulla dismisura, non è più un “male”, ma un elemento mediano, che funge da impulso dinamico verso la Bellezza in sé.

In Simposio si parla di scala amoris: gradualmente, dalla contemplazione della bellezza di un solo corpo si passa alla contemplazione dell’Idea della Bellezza.

La situazione in Fedro risulta piena di complicazioni: Platone capisce che l’uomo potrebbe iniziare il cammino ascetico nel migliore dei modi per, poi, perdersi; potrebbe incontrare ostacoli, difficoltà.

Il Fedro, dunque, è un dialogo dove l’ideale è sempre presente, ma aleggia anche lo sguardo di un filosofo che ha compreso pienamente la natura umana e che non si affida più a “grandi” illusioni. Le speranze, sicuramente, rimangono, ma l’intero quadro che tinteggia, adesso, è più “realistico”.

Così non si reprimono più la bellezza dei corpi, la passione: vengono, anzi, esaltati. L’uomo, finché sarà in vita, sarà sempre imperfetto, impuro, mai totalmente realizzato, mai stabilmente sapiente. Proverà ad essere un filo-sofo (si veda qui), ossia un amante della Sophia, del Superno, ma non potrà giammai eguagliarsi a ciò che è ideale.

Per tale motivo, in Platone la ricerca filosofica non si esaurisce mai: è META-FISICA, in quanto tensione continua e infinita verso ciò che non si possiede; è aspirazione all’eternità e alla fissità; alla Gnosi non difettosa, comunque non realizzabile.

Platone rimane dell’idea dell’impermeabilità dei due mondi e, in particolar modo, del mondo sopraceleste. Infatti, ad una attenta analisi, si può vedere chiaramente come il mondo inferiore non possa accedere a quello superiore, ma solo tangerlo all’infinito.

“Ora […] chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore […] ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni […] tranne l’anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza […] Tali anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica riacquistano per conseguenza le ali […] bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea […] verità che una volta l’anima nostra ha veduto […] e dall’alto piegava gli occhi verso […] cose […] esistenti […] Proprio per questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, perché […] sempre è fisso sul ricordo di quegli oggetti […] Così se un uomo usa giustamente tali ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene […] perfetto […] si allontana dalle faccende umane […] il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità” (Platone, 1998, pp. 53-55).

Solo l’anima del filosofo, dopo circa tre millenni, avendo scelto per tre volte il percorso psicagogico – perciò l’uso del dialogo a fine diairetico, per (ri)condurre la molteplicità all’Unità e l’unità alla Molteplicità – riesce a rammemorare; a rimettere le ali (grazie alle ali l’anima può volare in alto); a ritornare alla dimensione dalla e nella quale ha subito modellamento.

Tutto ciò, infatti, avviene alla terza morte, grazie alla intuizione dell’Idea, ossia la comprensione delle intime relazioni fra il particolare e l’universale, fra il Microcosmo e il Macrocosmo.

Riferimenti bibliografici

  • Platone, 1996, Simposio, Bari: Laterza
  • Platone, 1998, Fedro, Bari: Laterza
  • Platone, 2018, Timeo, Milano: Bur Rizzoli
Author profile

Studentessa di Scienze Filosofiche
(Università di Catania - Disum - Monastero dei Benedettini)

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