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You must please remember: dove ho messo la memoria?

Se si parla di memoria, Morrissey ha sempre qualcosa da dire. Come quando cantava, “you must please remember”. Nell’affidarci sempre più a dispositivi tecnologici per conoscere il mondo si verifica quello che si chiama outsourcing cognitivo. 

Prendo lo smartphone, apro Facebook e credo di sapere che cos’è successo nel mondo. Esprimo la mia opinione commentando, poi twitto. Poi controllo Instagram per la mia scorpacciata quotidiani di immagini del mondo. Rapido, controllo la posta. Rispondo. Inoltro. Cancello. Notifica su Facebook. Chiudo. Notifica su WhatsApp. Leggo. Indicazioni stradali con Google Maps. Prenoto tavolo con The Fork. Prima vedo qualche recensione su TripAdvisor. Notifica. Apro. Chiudo. Recensione. Prenoto. Google Maps. Notifica. Notifica. Notifica. Telefonata. SMS. Le criptovalute che fanno? Questa canzone di sottofondo non mi piace. Guardo un video. Registro un video. Scatto una foto. Due. Tre. Cancello. Scatto un selfie. Filtri. Salvo. Condivido. Notifica.

Mentre sono rimasto per 10 minuti nello stesso luogo fisico in realtà sono stato in mille posti diversi, lontani, noti o sconosciuti. Questa è la dislocazione che operano i media digitali. Finiamo cioè per interagire sempre meno con l’ambiente fisico che ci circonda, perfino per non parlare con la persona che è seduta al nostro stesso tavolo, perché siamo lì solo fisicamente, mentre siamo dislocati tra notifiche e app.

Lo scimmione di Kubrick (2001: Odissea nello spazio) manipola il mondo, scopre un femore, impara, diventa potente e caccia le altre scimmie. Cartesio fa a pezzi l’animale sul tavolo anatomico per scoprire com’è fatto l’occhio, per trovare la ghiandola pineale. Essere umani significa questo: esplorare, manipolare, contaminare (in tutti i sensi possibili). 

Lo scimmione diventa essere umano perché tocca, agisce sul mondo e interagisce direttamente con esso, perché la techné è questa abilità manuale, che permette una produzione poietica, quindi creativa e creatrice.

Ma adesso l’interazione diretta svanisce, resiste solo filtrata, mediata, attraverso dispositivi e app che definiscono il mio mondo e lo tengono in orbita. Se prima la realtà virtuale era ancora ben separata e distinta rispetto alla realtà esperita direttamente nello spaziotempo, adesso non è più così: essa si sovrappone quotidianamente in modi sempre più pervasivi e finiamo, per dirla con Feuerbach, nell’età della parvenza, dell’illusione, della rappresentazione, peraltro modellata a nostra immagine e somiglianza, secondo i nostri gusti. 

Cookies e algoritmi ci ripropongono le cose che noi selezioniamo: i post che più condividiamo, commentiamo, quelli a cui diamo più like, e selezionano pubblicità e informazioni più familiari. Siamo nel circolo dell’autoreferenzialità e finiamo per perderci il nuovo, il non-ordinario, il bizzarro, solo perché non familiare. Il nostro cervello opera così: usa le risorse limitate che ha a disposizione per selezionare l’informazione, mostrandoci e dirigendo la nostra attenzione verso le cose più familiari e facendoci perdere gran parte del mondo intorno a noi. Finiamo per esplorare un mondo che noi stessi abbiamo dipinto e disegnato a nostra immagine e somiglianza.

E procediamo per fare outsourcing: stiamo delegando servizi e competenze. Non compriamo più libri e dvd, perché adesso fruiamo di un servizio, di uno streaming, e non è più necessario possedere il prodotto fisico. E se tocchiamo qualcosa è solo un touch screen: tocchiamo un mondo che non c’è. 

Tra i tanti risvolti problematici dell’outsourcing, cioè dell’esternalizzare una competenza o un servizio, c’è quello che riguarda la memoria e il clouding. Nel breve estratto che condivido tramite link, una ricercatrice e docente presenta alcune considerazioni interessanti.

Platone, nel Fedro, denunciava che la scrittura avrebbe reso la memoria superflua, perché non sarebbe stato più necessario ricordare, esercitarsi alla memoria. Adesso non è importante ricordare, salvare un file o un documento, ma potervi accedere velocemente, da qualunque dispositivo. La memoria è fuori, in una chiavetta USB, su un hard disk o su una “nuvola”, cioè nel computer di qualcun altro.

Che cosa accadrebbe se smettessimo di ricordare o di ricordare come facevamo? O se finissimo per credere di ricordare solo perché abbiamo la memory pen in tasca con noi? Facciamo sempre back-up dei dati; e dei nostri ricordi? Un vecchio spot della Kodak diceva “ricordati di ricordare, le foto che non hai scattato sono i ricordi che non avrai”.

You Must Please Remember.

Author profile

Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.

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3 Replies to “You must please remember: dove ho messo la memoria?”

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