Alla luce dei recenti atti di cronaca è rientrata prepotentemente nel dibattito pubblico la questione dell’emancipazione femminile nella nostra società. L’omicidio di Giulia Cecchettin mostra chiaramente la “banalità del male” (Arendt, 1964, p. 290) di un sistema in cui siamo tutti immersi, e da cui tutti noi uomini, soprattutto, traiamo beneficio: il patriarcato. Intento di questo elaborato, allora, sarà provare a de-costruire le strutture socio-culturali e politiche stanti dietro i casi di violenza di genere che sentiamo ogni giorno.
Partiamo da un dato: il killer di Giulia era un ragazzo “banalmente” normale, proprio come Eichmann appariva agli occhi di Hannah Arendt. Entrambi i due personaggi non erano mostri, non erano “mele marce”, ma il frutto sano della società in cui sono vissuti. In entrambi i casi il problema è stato ed è strutturale, non occasionale. Indagare la singola psicologia del soggetto in questione è poco utile se si vuole evitare che atti simili si ripetano: l’orrore può albergare nei cuori buoni di tutti i privilegiati della storia.
Partiamo dalla definizioni. Il patriarcato va inteso come un sistema di relazioni di potere tra soggetti incorporati. Tali relazioni a loro volta si realizzano in particolari relazioni sociali asimmetriche sia tra i membri di generi diversi, che tra gli appartenenti ad uno stesso genere.
Il patriarcato, quindi, è un ordine politico dei corpi, continuamente “messo in scena” in qualunque attività quotidiana. I vari atti di femminicidi e di violenza di genere non sono gli unici atti del dramma del patriarcato. Sono semplicemente quelli che più risaltano perché più efferati.
Gli individui, nel patriarcato, vengono sempre considerati a partire dal loro peculiare “presentarsi” fisico e materiale. Questo perché la corporeità non è riducibile ad un semplice attributo del soggetto. Essa, al contrario, è un qualcosa di strettamente nostro e proprio, tramite cui comprendere in modo olistico il nostro stesso essere. Il corpo non è meramente un oggetto, ma è da vivere come un “movimento espressivo”. Come sosteneva il filosofo francese Merleau-Ponty, infatti:
“Il corpo (…) è sempre altro da ciò che è, sempre sessualità nello stesso tempo che libertà, radicato nella natura nel medesimo istante in cui si trasforma mediante la cultura, mai chiuso in sé e mai superato. Sia che si tratti del corpo altrui o del mio proprio corpo, ho un solo modo di conoscere il corpo umano: viverlo, e cioè far mio il dramma che lo attraversa e confondermi con esso. Io sono dunque il mio corpo, per lo meno nella misura in cui ho un’esperienza, e reciprocamente il mio corpo è come un soggetto naturale, come un abbozzo provvisorio del mio essere totale” (Merleau-Ponty, 2003, p. 271).
L’accento sul corpo serve per capire che è sempre un ben preciso corpo oppresso a subire la violenza fisica: quello femminile. Come sostenne Michela Murgia, difatti, col termine femminicidio non si intende semplicemente il sesso della vittima. Si intende il motivo per il quale essa viene uccisa: semplicemente perché donna.
Il patriarcato può allora essere assimilato in tutto e per tutto a quello che Michel Foucault avrebbe definito un “bio-potere”. Questo potere, innanzitutto tutto, come ha spiegato bene lo stesso autore in un altro suo famoso saggio, non è una proprietà, non è una potenza; il potere non è altro se non una relazione” (Foucault, 1998, p. 33 e 148).
Tale bio-potere è immanente, acefalo e orizzontale. Esso non ha cioè un centro, ma vive e si presenta in ogni piccola attività quotidiana implicitamente. Il patriarcato, insomma innerva tutto e opprime tutti, oppressori ed oppressi. E fa ciò esercitando una vitalpolitik, cioè una “politica della vita”, la quale si attua prevalentemente sui e nei corpi (Foucault, 2012, p.131).
Il femminismo post-strutturalista di matrice foucaultiana, seguendo la lezione de La volontà di sapere(2011), ha mostrato come il bio-potere patriarcale opera sintetizzando continuamente etichette di genere. Ciò per riverberare la divisione in due della società tra il genere svantaggiato (femminile) e quello privilegiato (maschile). Tutti gli uomini traggono beneficio da questo sistema di relazioni, chi più chi meno. Proprio per tale motivo la responsabilità socio-culturale dei femminicidi, degli stupri e via dicendo ricade su di noi uomini.
Gli attributi sintetizzati dal patriarcato non rimangono però semplici etichette nominalistiche. Sono “verbi che si fanno carne”(Gv 1,14). Le etichette, cioè, si realizzano materialmente modificando i corpi su cui vengono giustapposte. Gli attributi di genere devono essere “messi in scena” per poter predire il comportamento e le attitudini di qualcuno.
Gli stereotipi sessuali possono allora definirsi, in primo luogo, come “stigmi”, se utilizziamo l’etimologia proposta da Erving Goffman. Essi sono cioè dei “segni sul corpo che servivano a mostrare qualcosa di insolito” (Goffman, 1963, p. 27). Quel qualcosa di insolito, per lo sguardo del maschio patriarcale che domina, è il corpo femminile, visto come altro-da-sé. Lo stigma (di genere), distorce volutamente la percezione che di quella persona si ha dall’esterno. Così facendo, altresì, lo stigma si comporta come una profezia auto-avverantesi (Goffman, 1963, p. 75).
Proprio per questi motivi il patriarcato deve essere definito come un “ordine drammaturgico”. Esso non sussiste senza ruoli teatrali precisi (dominanti e dominati) e un pubblico, ossia la società tutta. Ciò che è importante è ciò che appare, non il dato biologico (Ghigi, Sassatelli, 2018, pp. 138-139). Quello che conta è come il genere viene rappresentato: se in maniera conforme o difforme al canone sociale dominante. Proprio per questo possiamo allora pensare il corpo come lo strumento che il soggetto ha per controllare e monitorare costantemente la propria identità sociale. Il “self“, l’identità dell’ego stessa (sociale e personale) è d’altronde un “effetto drammaturgico” (Goffman, 1969, pp. 288-289). Il punto allora qual è? Che il patriarcato, a nostro avviso, sintetizza a priori le identità sociali che il soggetto andrà poi ad assumere, controllando così il suo self indirettamente.
Il soggetto, infatti, per presentare sé stesso sulla scena sociale, tramite il corpo è portato a sostenere implicitamente dei ben precisi “codici di genere”, detti anche “gender displays“. Questi, altro non sono che delle iper-ritualizzazioni che portano a drammatizzare idealizzazione culturali. Proprio per questa competenza performativa di genere, costantemente richiesta al soggetto, Judith Butler aveva affermato che “il genere è un fare”(Ghigi, Sassatelli, 2018, pp. 68-70). Il ruolo di un genere è costruito sempre in relazione all’altro, seguendo quella che Butler infatti chiamava “matrice eterosessuale” del patriarcato. La costruzione della donna come “necessariamente” debole, allora, è legata alla costruzione della mascolinità tossica, ossia dell’uomo “necessariamente” forte. Queste, tuttavia, solo idealizzazioni culturali non dati naturali.
Noi tutti, in sostanza, siamo attori del bio-potere patriarcale sottoposti a quella che infatti Foucault chiamava “disciplina introiettata”. In “Sorvegliare e punire”, analizzando anche il meccanismo del panopticon di Bentham, Foucault mostra come sia proprio “uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere” (Foucault, 1976, p. 219).
L’essere potenzialmente sempre sotto lo sguardo del Big brother (la società tutta) induce chiunque a conformarsi alla prassi corporea voluta dai controllori. Questo meccanismo è proprio quello che usa il bio-potere patriarcale per controllare costantemente la vita e i corpi delle donne. Solamente che, in questo caso, il controllo non è centralizzato come nel panopticon. Al contrario è diffuso e immanente, proprio come il bio-potere di cui parlavamo prima.
I controllori, insomma, siamo tutti noi, sia uomini che donne, ogni qual volta neghiamo ad un genere la possibilità di compiere determinate azioni (“gli uomini non piangono!”). Diventiamo mezzi di controllo endemico del bio-potere patriarcale ogni qual volta giudichiamo indebitamente le libere espressioni corporali di qualcuna/o, che siano difformi dal normale. Quando produciamo della vittimizzazione secondaria nelle vittime di violenza, siamo tutti patriarcali.
Oltre queste forme più note, tuttavia, vi sono altre forme di controllo patriarcali più sottili e nascoste. Una di queste sicuramente è la cosmesi, per esempio, come ha sottolineato Sandra Bartky. Essa, infatti, permette l’introiezione nelle donne di una certa visione del proprio genere.
L’obbligo della cosmesi, cui vengono indotte le donne nella nostra società, crea la falsa coscienza della femminilità come “visibilità”. Il corpo della donna, nel patriarcato, “è” per essere visto (dallo sguardo maschile). Esso sussiste per essere messo in scena (si pensi al fenomeno del “velinismo“). Proprio per questo motivo deve essere bio-politicamente disciplinato, abbellendolo. In tal modo le donne si sentono giudicate principalmente per come appaiono all’esterno, introiettando uno stato di “visibilità colpevole permanente” (Ghigi, Sassatelli, 2028, pp. 112-113).
Il canovaccio del self femminile, insomma ha pochi margini di manovra: sorvegliante e sorvegliato convivono in lei. Ciò, peraltro, necessita una dimensione di necessario riconoscimento di questa bellezza. È proprio quest’ultimo elemento che rende la donna consapevole di questo stato subalterno di oggettificazione. L’apprezzamento estetico, che la donna “deve” necessariamente ricevere è all’origine, infatti, del catcalling. Alla donna deve essere riconosciuta come sua prima cosa la bellezza, perché essa è ciò per cui ella “deve” vivere, e nient’altro.
La femminilità nel patriarcato viene ridotta, in sostanza, ad una pratica corporea riflessa. Ciò fa sì che la donna diventi alienata sessualmente e fisicamente (vedi qui). Pensare di fare di questa continua presentazione di sè, una forma di empowerment personale, è per l’autrice velleitario. (Bartky, 1990, p. 36).
Considerato tutto ciò, possiamo allora dire che il segreto del patriarcato risiede nella sua immagine. Occorre innovare i copioni teatrali scritti da millenni, e occorre consapevolizzare il pubblico di questa tragi-commedia. Se a quest’ultimo non piacerà più la scena, anche gli attori saranno costretti a cambiare i propri ruoli. Proprio nella narrazione teatrale maschilista del mondo che esso auto-produce e su cui esso poi si fonda, risiede la radice del bio-potere patriarcale. Bisogna allora cambiare innanzitutto quella per rovesciare il sistema.
Riferimenti bibliografici
- Bartky, S., 1990, Femminity and Domination, London, Routledge.
- Foucault, M., 1998, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Milano, Feltrinelli.
- Foucault, M., 2011, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli.
- Ghigi, R., Sassatelli, R., 2018, Corpo, genere, società, Bologna, Il Mulino.
- Goffman, E., 1963, Stigma. Note sulla gestione dell’identità degradata, Verona, Ombre corte.
- Goffman, E., 1969, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino.
- Merleau-Ponty, M., 2003, Fenomenologia della percezione, Firenze-Milano, Bombiani.
- Vangelo di Giovanni, 1, 14.