Abbiamo bisogno della tecnica e abbiamo bisogno della bellezza. Ma come coniugarle? Severino ricordava che sin dagli albori della civiltà greca, e più chiaramente con Platone, l’essere è associato alla tecnica, cioè al fare, al produrre, ad un’attività creatrice. Nel Sofista, Platone scrive: «Propongo una definizione: gli enti non sono altro che potenza» (Platone, 2000b, 247D-E), avendo precisato poco prima che tutto ciò che ha potenza, cioè che sia predisposto a produrre qualcosa o a subire un’azione, è ciò che realmente è.
Le varie distinzioni tra i vari tipi di téchne (produttiva, acquisitiva, divina o umana) non cambiano la sostanza del problema: la tecnica implica, in ultima analisi, un nichilismo, un annientamento di ogni ente, in quanto visto solo entro un rapporto di usabilità, o, in termini più ampi, di utilizzabilità e di funzionamento. Per Galimberti, tutto questo significa che «se qualcosa non è technikón — se cioè non produce o non è prodotto, o non rientra nel processo del produrre-essere prodotto — allora non è, ossia è un niente» (Severino, 1982, p. 197) — (si veda, su questo, la critica all’utilità nella società del funzionamento).
L’idea che siamo in quanto facciamo, ben supportata da molta filosofia contemporanea — si pensi al quehacer di Ortega y Gasset, per esempio — finisce per spostare l’attenzione sulla prassi, sulle procedure, sugli standard e su tutto ciò che ottimizza il fine della vita umana: la produzione. È l’apertura di credito nei confronti della tecnica e di ogni suo possibile dominio.
Quest’assunzione richiede una competenza etica ad ogni livello — meta-etico, deontologico, prudenziale — per evitare che la tecnica continui ad avanzare sul quel piano inclinato del dominio sul mondo: in questo suo imperio, «assistiamo ad un capovolgimento della soggettività: non più l’uomo soggetto e la tecnica strumento a sua disposizione, ma la tecnica che dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario» (Galimberti, 1999, p. 345).
Questo rovesciamento della soggettività non solo determina un auto-accrescimento e un’auto-alimentazione della tecnica — come aveva ben previsto Jonas (2009) — ma schiude un orizzonte di totale incertezza: se vivere è fare, dunque tentativo di operare sul mondo in vista di fini umani, col compimento del rovesciamento della rapporto uomo-tecnica, i fini umani svaniscono: e i fini della tecnica restano perlopiù ignoti, mentre gli effetti del suo fare sono solo in parte immaginabili; spesso quelli indesiderati emergono improvvisamente.
Qual è una prima possibile indicazione? Recuperare la vita. Recuperarne il senso del fare, tornando alla soggettività umana nel rapporto con la tecnica, cioè col mondo. Se la vita è fare, se l’esistenza è un continuo farsi, perché per natura siamo gettati nel mondo come de-formati, cioè privi di una forma stabilita, ognuno farà e si farà per trovare la forma e il senso della propria vita; ciascuno per la propria. Ma questo fare non è fantasia: è creazione, virtualità, in senso pienamente poietico, di una produzione di ciò che prima non c’era, ma a partire dal mondo, per un operare sul mondo, dunque in relazione al mondo.
La storia delle civiltà è storia del rapporto col mondo e di come la tecnica ha modificato questo rapporto. Da sempre abbiamo guardato al mondo, allo spazio-ambiente, cioè alla natura, per poterla ricreare, migliorata, come in un campo coltivato, in un allevamento di bestiame, in una serra di fiori, o nella centrale idroelettrica che sfrutta le acque di una diga; come nella selezione delle razze, nella forza del vento come propulsione su una vela, come il fuoco per cucinare e riscaldare, come la forza del vapore e così via. La produzione umana è sempre stata a partire dalla natura per oltrepassarla — come nelle splendide pagine di Emerson sul rapporto uomo-natura in termini di cooperazione.
Qual è una seconda possibile indicazione? La natura non è solo potenza, quella di Platone o quella — intesa come energia — di Heidegger (1976), dalla quale rifornirsi come fosse un “fondo”. La natura è anche bellezza. Secondo Emerson, «la bellezza della Natura si ri-forma essa stessa nella mente, e non per una sterile contemplazione, ma per nuove creazioni. […] La creazione della bellezza è Arte» (Emerson, 1904a, p. 23) e la tecnica dovrebbe ricordarsene. Il grande messaggio di Emerson è che nessuna forma artistica, nessuna pittura, nessuna architettura, in fondo nessuna ingegneria, dunque nessuna produzione tecnica sarebbero possibili se non fossero sempre a partire dalla natura, se non contenessero un qualche rimando alla natura. E perché ciò possa accadere, è necessario che l’essere umano non distolga lo sguardo incuriosito, meravigliato, dalla natura, che non la dia per scontata, che non ne dimentichi mai la grande forza creatrice ed ispiratrice.
Già nella natura ordinata delle aiuole e dei marciapiedi delle città, nei roseti di Regent’s Park, nel giardino zen giapponese o in quello all’italiana emerge una tecnica che muove dalla natura, tentando di carpirne segreti, misura, magia. La bellezza è un ideale gnoseologico: «La bellezza è la forma sotto la quale l’intelletto preferisce studiare il mondo», annunciava Emerson (1904b, p. 287). Ma la bellezza, in relazione alla tecnica, è anche un ideale morale: l’idea della connessione tra bellezza e armonia è, del resto, certamente antica: si pensi all’allievo di Pitagora, Filolao, che teorizzò i concetti di simmetria e proporzione già presenti nei secoli precedenti in varie forme artistiche, dal periodo arcaico — che trova espressione nella nota Hera di Samo o nella Kore di Antenore — allo “stile severo” del Discobolo di Mirone, con la sua costruzione chiastica, o dal periodo classico di Fidia, Prassitele e Lisippo, fino all’età ellenistica delle sue varie scuole (neoattica, pergamena, rodia, alessandrina).
Com’è noto, Platone, più che alla tecnica, collega il concetto di bellezza alle idee di giustizia e armonia. Ma è nell’Ippia Maggiore che giunge ad ammettere il carattere aporetico della bellezza — «le cose belle sono difficili» (Platone, 2000a, 304 E) — non essendo soddisfacente ridurre il bello al conveniente o all’utile. D’altro canto, Aristotele, nel ricordare l’importanza della composizione in una tragedia, afferma che «ciò che è bello, sia in un animale sia in ogni altra cosa costituita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello infatti sta nella grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti» (Aristotele, 2000, 1450 B).
E questo è vero anche oggi perfino in un ambito in cui il giudizio estetico è visto con sospetto, come le scienze naturali: la “teoria della bellezza molecolare” di Hoffman (1990) recupera i concetti matematici di ordine e armonia che si basano sulla sezione aurea e sul fatto che le spirali siano onnipresenti in natura, a iniziare dalla matematica (si pensi ai numeri di Fibonacci o alla spirale logaritmica, ben tematizzata da Aronofsky nel film π). La bellezza, dunque, sarebbe una lettura umana di un fatto naturale, altrimenti traducibile in termini geometrici, come intendeva Galileo.
Perché non ci accorgiamo di tutta questa bellezza che ci circonda? Perché non operiamo adottando la bellezza come criterio principale? La risposta non è di quelle facili. Molti fattori entrano in gioco: dalla forza dell’abitudine e della routine, che caratterizzano la vita frenetica o apatica, specialmente in città, a quell’atteggiamento blasé, che Simmel (1903) aveva ben descritto proprio in relazione alla metropoli e all’uomo moderno; o, anche, lo stordimento emotivo, un uso continuo di dispositivi tecnologici che incrementano il senso dromocratico di cui parlava Virilio (1977), spingendoci a operazioni sempre più veloci, a consultazioni sempre più rapide, spesso frettolose, a relazioni troppo spesso superficiali.
Per esempio, quando diamo più importanza al dato economico, la nostra arte è solo commerciale, veicola funzioni basse e non fornisce alcuna reale ispirazione: perché pretende di fare a meno del dato naturale, cioè dello spazio-ambiente in cui l’essere umano è posto. Non tenendo conto della natura, che come abbiamo visto è armonia, proporzione, ma anche energia, potenza, forza, stupore e magia, all’individuo non resta poi molto: il suo fare diventa un meccanico eseguire, un assemblare anziché un creare, un appiattimento verso routine procedurali e procedure standardizzate, che aprono un orizzonte infinito di fare robotizzato — robot è dal termine ceco robota (servitù, schiavitù), specialmente nell’accezione datane da Čapek come automa). E si proietta un agire che è produzione solo come ri-produzione, perché permessa dall’epoca della riproducibilità tecnica, come aveva annunciato Benjamin (2013): è la perdita dell’aura, di quella “magia” di cui è circondato il prodotto in quanto unico. È, infine, la riduzione di ogni visione, di ogni immaginazione, di ogni speranza, di ogni passione, di ogni sogno e di tutto ciò che ci muove verso il fare ad un copiare, ad un ri-fare, nel senso di una infinita ripetizione (e su questo Kierkegaard avrebbe avuto molto da scrivere), ad un’auto-referenzialità, che finisce per chiudere progressivamente ogni apertura verso l’ignoto, l’imprevisto, il bizzarro, il curioso, il meraviglioso; verso l’altro.
La bellezza è un paradigma antropologico e un criterio etico. Ogni essere vivente cerca la bellezza o vuole esserne degno rappresentante: il fiore che deve lasciarsi impollinare non vuole appassire, la femmina di pavone sceglierà il maschio con la ruota più bella, gli uccelli riempiono il mondo con i loro cinguettii, molti animali danno vita a danze, o mostrano la loro potenza in scontri e lotte, altri migrano percorrendo infiniti viaggi o l’ultimo della propria vita. La vità è bellezza e la vanità ne è lo strumento più manifesto, spiegava Paul Rée (2005).
Nessun essere umano vorrebbe guardare un film brutto, o sedersi in un ristorante brutto, sporco e dove servono cibo scadente. E quando proviamo a improvvisarci pittori, poeti, cuochi e amanti non guardiamo forse a quanto di bello è già stato fatto? Andiamo a visitare musei, ammiriano le opere d’arte custodite al loro interno, andiamo ai concerti e ascoltiamo musica, leggiamo, guardiamo il mondo non per mera curiosità ma per sperare di trovarvi ad ogni angolo un momento di bellezza.
Aneliamo alla bellezza, come fosse ossigeno. E la cerchiamo tanto nelle opere maestose dell’artista e del genio, quanto nel piccolo fiore colto sotto un sasso. Ricerchiamo continuamente la bellezza: ognuno la sua, secondo le teorie sul gusto di Kant o Nietzsche. Qui non è in questione che cosa sia il gusto o il sublime, qui non importa stabilire se la bellezza sia il risultato di una proporzione matematica, o la ricerca personale di un gusto specifico: il fatto centrale è che la bellezza è il linguaggio con cui natura e umanità possono dialogare.
Il principio economico che sta alla base della società del funzionamento, che richiede velocità, efficienza, ottimizzazione, vuole estrarre dalla natura soltanto la sua efficienza, dimenticando che la misura della sua efficienza è una misura di armonia, cioè è bellezza. L’efficienza della natura non è una mera trasmissione di geni in provetta: è la danza del corteggiamento, è la lotta per la femmina e per il cibo, è il ritorno alla vita di orsi dopo un lungo letargo, è ciò che “generà lillà da terra morta, confondendo memoria e desiderio” — come cantava il Poeta (Eliot, 2011).
L’efficienza della produzione, se dimentica la bellezza, dimentica infine se stessa, prepara a quel nichilismo che annienta ogni rapporto col mondo, in quanto non fa in vista di un operare sul mondo e in relazione col mondo, ma in vista di un produrre fine a stesso; reitera la produzione senza un principio creativo, ma solo come un agire su stessa e per se stessa. Danze, lotte, canti, richiami sono tutte l’invito ad una natura che sfata il mito dell’efficienza e del minor spreco possibile, e che impone la necessità della relazione: il rivale, la compagna, il predatore, la preda.
Se il fare umano, l’artificio, e la natura sono collegate, significa che arte e natura sono strettamente connesse: se cresco in una città brutta, fatta di edifici brutti o poco funzionali, di strade non percorribili, senza parchi, con le case ammassate e senza alcun criterio estetico, con un traffico non regolamentato, in cui le automobili scorrazzano e non c’è posto per pedoni o ciclisti, è probabile che la mia idea di città sia esattamente questa e che, in generale, tenda a non pormi problemi di ordine, di inquinamento, di efficienza. Cioè, di bellezza.
Le pagine di Vittorini, di Rosario che parla al padre, sono emblematiche, specialmente perché scritte da chi conosceva bene ambienti urbani spesso problematici, come quelli siciliani:
La gente è contenta nelle città che sono belle. […] E si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi in cui abbeverare le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha, ed è bella gente. […] Tu dici che dev’essere per l’aria buona, ma più la città è bella e più la gente è bella come se l’aria vi fosse più buona. […] Nelle città brutte la gente è anche cattiva. […] La gente è disgraziata, nei posti così, non ha nulla di cui rallegrarsi, nulla mai che la faccia un po’ contenta, e allora per forza è cattiva. È brutta ed è cattiva, è sporca ed è cattiva, è malata ed è cattiva. […] Una città non nasce come un cardo. […] O sono gli angioletti che vengono a posarla su una collina? […] Tutto dipendeva dal modo in cui la gente viveva. Dove la gente viveva come ad Enna si aveva Enna, dove la gente viveva come a Licata, si aveva Licata (Vittorini, 1969, pp. 13-18).
Dewey avvertiva che fintantoché l’arte resterà il salone di bellezza della civiltà, e non un criterio morale per il fare, né l’arte, né la civiltà saranno al sicuro. Perché l’architettura delle nostre grandi città è così indegna di una bella civiltà? Non dipende dalla mancanza di materiali, né dalla mancanza di capacità tecniche. E tuttavia non soltanto i bassifondi, ma anche gli appartamenti dei benestanti sono spesso esteticamente ripugnanti, perché sono privi di immaginazione — faceva notare Dewey. Il loro carattere è determinato da un sistema economico nel quale la terra è utilizzata per il profitto, derivante dall’affitto e dalla vendita. Fintantoché la terra non sarà liberata da questo fardello economico, begli edifici potranno occasionalmente essere eretti, ma resta poca speranza per la comparsa di una costruzione architettonica generale degna di una nobile civiltà (Dewey, 2008, p. 346) — si veda, per esempio, la città digitale.
La bellezza deve essere il criterio morale della tecnica, del fare, per dare forma alla vita e, con essa, al mondo. La bellezza riempie la tecnica della relazionalità con se stessa, con gli altri, con la natura, cioè col mondo: persa di vista questa relazione col mondo, non ha più alcun senso fare alcunché. Perché «niente è bello da solo; niente è bello se non in rapporto al tutto. […] La bellezza, nel suo senso più ampio e profondo, è un’espressione dell’universo» (Emerson, 1904a, p. 24). Facciamo in modo che sia anche l’espressione di ciascuno di noi.
Riferimenti bibliografici
- Aristotele. 2000. Poetica. Milano: Bompiani
- Benjamin, Walter. 2013. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935). Milano: BUR
- Dewey, John. 2008. Art as Experience (1934). In Boydston, J. A., ed., The Later Works of John Dewey. Vol. 10. Carbondale: SIU Press, Carbondale
- Eliot, Thomas Stearns. 2011. “The Burial of the Dead”. In The Waste Land (1922). Toronto: Broadview Press
- Emerson, Ralph Waldo. 1904b. The Conduct of Life (1860). In The Complete Works. Volume 6. Boston: Houghton Mifflin
- Emerson, Ralph Waldo. 1904a. Nature (1876). In The Complete Works. Volume 1. Boston: Houghton Mifflin
- Galimberti, Umberto. 1999. Psiche e techne. Milano: Feltrinelli
- Heidegger, Martin. 1976. La questione della tecnica (1954). In Saggi e discorsi. Milano: Mursia
- Hoffmann Roald. 1990. “Molecolar Beauty”. In Journal of Aesthetics and Art Criticism, 3, 48
- Jonas, Hans. 2009. Il principio responsabilità (1979). Torino: Einaudi
- Platone. 2000a. Ippia Maggiore. In Tutti gli scritti. Milano: Bompiani
- Platone. 2000b. Sofista. In Tutti gli scritti. Milano: Bompiani
- Rée, Paul. 2005. L’origine dei sentimenti morali (1877). Genova: Il Nuovo Melangolo
- Severino, Emanuele. 1982. La terra e l’essenza dell’uomo (1972). In Essenza del nichilismo. Milano: Adelphi
- Virilio, Paul. 1977. Vitesse et politique. Parigi: Galilée
- Vittorini Elio. 1969. Le città del mondo. Torino: Einaudi
Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.