Il regalo che non serve. Piccola apologia del regalo inutile

Chissà quante volte ci siamo imbattuti in un regalo poco gradito, forse ritenuto perfino inutile, magari senza capirne il significato. Ma esistono davvero i regali inutili? E i regali utili sono davvero regali? Proviamo a capire se tutti i regali sono uguali e che differenza esiste un tra i diversi tipi di regali. Come spesso accade, l’etimologia aiuta a comprendere le differenze sostanziali tra le cose: il nome non è un mero flatus vocis, ma un’identificazione chiara, quasi un’attribuzione di qualità specifiche ad un oggetto o a un’azione.

Così, scopriamo che gli antichi Romani distinguevano due tipi di regalo, a cui davano più di un significato: il munus e il donum. Mentre munus fa riferimento ad una reciprocità, cioè ad uno scambio di regali – da cui cum-munus, il mettere in comune, il condividere – come nella dote paterna (patrimonio) o in quella della promessa sposa (matrimonio); al contrario, donum (e il più antico danum) rivela la propria radice indoeuropea che implica un dare, del tutto indipendente dalla reciprocità: si dà, si dona ma non per ricevere qualcosa in cambio; per il piacere di donare.

Ma regalo – il termine più utilizzato è proprio regalo: regalo di Natale, regalo di compleanno, regalo di nozze – non ha in realtà il significato di un un vero donare, cioè un dare senza nulla in cambio: regalare è da regalis, quindi da rex e regis, cioè è un dono che si fa al re (dallo spagnolo, nell’utilizzo poi diffuso fino a oggi): mentre i Re Magi portano i doni, i sudditi portano i regali: è qualcosa di regale se è degno del re o, per estensione, se ci fa sentire come un re – che è poi ciò che intendevano gli antichi Romani col termine strenna.

A. Mantegna, Adorazione dei Magi (1497-1500)

E, in effetti, nessuno andrebbe dal re o a una festa da re senza presentare qualcosa di degno, cioè senza un presente (dal francese poi con idea di regalo). Al contrario, se intendiamo un regalo non regale, allora lo chiamiamo un pensiero o un pensierino, come qualcosa di poco valore, non degno di un re.

Dunque, qual è il significato del regalo? Che cosa regaliamo? Un oggetto? Un pensiero? Un’emozione? Parrebbe che l’idea del regalo – al di là della sua etimologia specifica – implichi sempre una reciprocità: il regalo crea dipendenza in chi lo riceve, un po’ come metterlo nelle condizioni di doverci un favore – in realtà, il favore si ricambia, cioè si scambia, come un regalo: ti faccio un favore, da favor, nel senso di raccomandazione, protezione, preferenza e mi aspetto che tu faccia lo stesso quando ne avrai occasione o ne avrò bisogno.

L’idea del regalo come scambio è centrale nelle società umane: ha un significato che implica la simmetria, il riconoscimento, la mutualità, cioè il poter contare sugli altri, quindi è alla base di un fondamentale senso di comunità, cum-munus. La donazione, per esempio quella filantropica, invece, mutila ogni mutualità, perché non implica, né richiede, lo scambio: se, da un lato, donare è un gesto che rompe la necessità dello scambio, dall’altro, proprio perché lo fa, produce uno squilibrio, perfino un disagio: chi riceve non può ricambiare. Singer ci ricorda l’importanza della donazione filantropica per limitare le ingiustizie sociali, un po’ sulla scia della teoria della giustizia di Rawls. Ma, s’immagini, per esempio, il caso di un donatore che aiuta una persona in difficoltà: il cibo, gli abiti o il denaro che egli riceverà in dono, senza poter, né dover ricambiare – senso pieno del dare e del donare – lo liberano dallo scambio, ma, al contempo, rischiano di gettarlo in una situazione di dipendenza, cioè di dominio: il donatore è il suo dominus, il suo signore, il suo re senza regalie, né regali.

P. De Hooch, Lady handing a coin to a Servant-Girl (1668-1672)

Con la donazione diamo ciò che non è necessariamente presente, né regale: diamo il nostro tempo, diamo le nostre competenze, diamo i nostri sentimenti, diamo il nostro amore. Il dono è il senso pieno di un dare qualcosa che ci appartiene, che ci è prezioso: se nel regalo il significato del dare è dettato dal donatario – per esempio, il re o il festeggiato – e infatti portiamo un presente in cambio di una festa, di una cena, di un invito, o un regalo in quanto necessariamente degno del re, nel dono il dare è tutto nelle mani del donatore: lui sceglie che cosa donare, che cosa regalare – nel senso poi diffuso oggi.

Spesso diciamo: “Ho voluto farti questo regalo perché a me è piaciuto”. Nel dono il regalo è la scelta del donatore, il libero desiderio di pensare alla persona e immaginarla col proprio dono, o sognarla con la donazione della nostra compagnia, del nostro tempo. Chi riceve un regalo-dono riceve anche il donatore: accoglie il suo tempo – quello che ha speso per scegliere il dono –, accoglie il suo gusto, accoglie qualcosa della sua vita e del suo mondo. Pertanto, il dono non è un mero trasferimento di beni – come al mercato –, ma una contaminazione di vite.

A. de Gelder, Ahimelech Giving the Sword of Goliath to David (1680)

Invece oggi assistiamo al regalo utile: la pratica di regalare cose che devono per forza piacere a chi le riceve. Il regalo che si può cambiare, non in uno scambio di munus per un altro, ma riportandolo al negozio perché non ci serve o non ci piace. Il regalo accompagnato dallo “scontrino di cortesia” che permette la totale interscambiabilità del regalo. Ma il regalo come dono regale non prevedeva tutto ciò: il regalo doveva essere degno del re, non utile al re. Anzi, doveva essere unico, non convertibile in altro, non interscambiabile. Surrogato finale di questa deriva funzionalistica della società dei consumi è il “buono regalo”: la gift card è la totale alienazione del regalo dal soggetto che lo regala. Non vi è più nulla di lui in quel regalo. Chi riceve un “buono regalo” non riceve nulla di personale da chi glielo regala, nulla che racconti di lui o di lei, nulla che riveli gusti, scelte, preferenze, nulla che ci indichi il tempo che quella persona ha voluto donarci nello scegliere quel regalo.

Nel dono scegliamo noi stessi, nel regalo scegliamo gli altri. E schiacciati dalla considerazione strumentale del mondo – inteso in modo pervasivo e in termini tecnici – finiamo per interpretare anche i regali come strumenti, come prodotti – appunto, cioè, technikon. Il regalo da scartare deve avere un chiaro significato, una immediata spendibilità funzionale o, quantomeno, deve inserirsi prontamente nel mondo di chi lo riceve. Nel dono, il mondo di chi lo riceve si arricchisce di “oggetti alieni”, forse incomprensibili, ma unici, orizzonti di significati altri e di rimandi a mondi lontani. È il vero senso del dono che diventa ri-cordo, che è rimando a cor e cordis, cioè un ridare al cuore – una volta considerato organo della memoria. Donare è ricordare; ricevere un dono è ricordarsi. Nessuna funzionalità è richiesta.

G. Ceruti, Piccola mendicante e donna che fila (1720)

Proviamo a regalare noi stessi, almeno un po’. Proviamo a disporci a ricevere ciò che gli altri vogliono donarci, a ricordarci che quando scartiamo un regalo, insieme ad un oggetto, stiamo scoprendo un po’ di cuore e di anima di chi ce lo ha fatto. Proviamo a rendere unici gli oggetti, trasformandoli in simboli, cioè in rappresentazioni di qualcos’altro, evitando la loro mera interscambiabilità – “quel ciondolo che per me significa molto”, “quel libro che mi ha regalato mia madre”. Perché, come ricordava  Zhuang-zi, maestro di filosofia orientale, tutti conoscono l’utilità delle cose, ma non c’è nessuno che conosca l’inutilità delle cose: cioè, il loro vero essere doni regali.

Author profile

Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.

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