La chioma di Bere-Nietzsche: “l’uomo è una cosa da superare”

Può, l’uomo, godere realmente della stessa sostanza delle stelle?

Chi scrutò nell’immenso firmamento e apprese delle stelle, delle albe, dei tramonti
e come il fiammeggiante lume del sole si scuri
e in tempi fissi le costellazioni vengano meno
quel Conone nel chiarore celeste vide me
una ciocca recisa dalla chioma di Berenice


Catullo

(Albini, 1931)

Per approcciarsi alla lettura di questo contributo è necessario mettere da parte le lenti del disincanto postmoderno e adottare un’ottica catartica. Il testo, tratto dalla traduzione in italiano del Carme 66 di Catullo, La chioma di Berenice, mette a fuoco uno dei passaggi cruciali dell’omonima elegia presente nella raccolta degli Aitia di Callimaco. Suggestivo è il fatto che sia la chioma di capelli stessa a parlare, a raccontarsi in prima persona, ad esprimere la letizia, l’inquietudine e i turbamenti a fronte della sua travagliata metànoia, un divenire che da materia l’ha trasformata in costellazione.

Nel III secolo a.C. Tolomeo III Evergete – re d’Egitto – deve allontanarsi per prendere parte ad una campagna militare in Siria. Sua moglie, la straordinaria Berenice, fa voto solenne di consacrare ad Afrodite la sua folta chioma se il marito fosse tornato sano e salvo. Al suo ritorno, i capelli della regina spariscono dal tempio e, all’astronomo Conone, il merito di aver scorto quella chioma nel firmamento, esattamente in una costellazione che sarà destinata a ricordare per sempre la regina d’Egitto. Ma quanto di sano e rassicurante c’è in questa leggenda per la coscienza umana? Per la finitudine di quell’uomo che vive nelle fosse, ma è convinto di essere alto sulla terra – parafrasando Platone?

Pompei, Mosaico di Orione (II secolo a.C – I secolo a.C)

Questo processo di trasformazione, nella mitologia greca e romana, si chiama catasterismo. In una cultura in cui qualsiasi tipo di fenomeno astrale sembrava fosse collegato con una qualche logica universale perfetta, la metamorfosi di un personaggio rilevante in una costellazione significava, per certi versi, osannare quella stessa figura. Ma per altri versi – magari più contemporanei – avrebbe significato asservire quella figura ad un ruolo extra-umano, inappropriato. Di conseguenza, la chioma di capelli, non può che essere intesa come l’allegoria di quell’uomo convinto che il segreto per la sua massima perfezione stia nell’alienarsi dalla propria – naturale – sostanzialità; laddove occorrerebbe semplicemente mirare a superare se stessi – tramite se stessi – per emanciparsi dalla servile condizione di essere umano.

Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. […] Il conoscimento e il possesso di se medesimo suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo più dall’amore.

(Leopardi, 1845)

Esistono, pertanto, metamorfosi capaci di disorientare l’uomo nel corso della sua vita e metamorfosi che consentono di affermare, invece, il suo predominio sul mondo.

Ho subìto una metamorfosi, ma non per nuove penne e nuove ali: queste sono sparite e, al loro posto, spero ormai d’avere un paio di gambe per camminare pazientemente sulla terra

(John Keats, 1848).

Uscire da noi stessi pur rimanendo in noi stessi, questo significa riconoscere la Natura come dimensione totalizzante dell’uomo. L’uomo è Natura, ma non è identico agli esseri naturali: gode di una sua autonomia, di un suo carattere razionale e al tempo stesso impetuoso, che gli permette di fare esperienza dell’Infinito e, di essere, Infinito. Se Atteone non avesse visto nuda Diana, non si sarebbe trasformato in cervo; ciò vale a dire che se l’anima umana non fosse andata in cerca della natura, non sarebbe diventata essa stessa natura. Non esistono manuali, corsi di alcun tipo che possano guidare magistralmente l’uomo alla sua auto-affermazione. Non esiste costellazione alcuna che possa fare dell’uomo un essere incondizionato e onnipotente. 

È un atto di coraggio.

In Così parlò Zarathustra, Nietzsche riporta una delle sue considerazioni più icastiche: “Il coraggio ammazza anche la vertigine in prossimità degli abissi: e dove mai l’uomo non si trova vicino agli abissi!” (Nietzsche, 1983). È il coraggio che arma l’uomo ad agire in un certo modo. Lo arma, sì, ma non sempre lo nobilita. Alcune decisioni son frutto di un coraggio immaturo, che inevitabilmente concorre al male dell’altro, chiunque esso sia. Ed è sempre in Così parlò Zarathustra, che il pastore che stava per morire soffocato a causa del serpente in gola, dovette mordere l’animale per salvarsi. Nietzsche racconta: “Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi!” (Nietzsche, 1983).

F. Goya, Saturno che divora i suoi figli (1819-1823)

Soltanto nel momento in cui l’uomo riesce ad imporre la propria – coraggiosa – azione, libero e scevro da qualsiasi condizionamento esterno, sarà capace di vivere la vita nella sua pienezza. Solo allora, il calibro della perfezione sarà tangibile e definibile nel superuomo. Mordere quel serpente – metaforicamente – significa dire sì alla vita. Cos’è che allora è apparso rivoluzionario nella teoria nietzschiana, se l’uomo rimane sempre un essere mortale? Cos’è che rende la sua esistenza irripetibile, se permane immutato il fondamento della sua precarietà?

A mutare, è la prospettiva con cui si vive la vita: l’uomo nietzschiano abbandona il “ma” per abbracciare l’“assolutamente ”. Si tratta di accettare la vita così com’è, sposando quell’«attimo» infisso sulla porta carraia in cima al monte dove si trovava Zarathustra. Un’esistenza che vive il tempo, senza esserne vittima, una filosofia del presente, dell’immanente. (qui un approfondimento sul tema del tempo). Un’esistenza, però, quella dell’uomo nella sua accezione superomistica, mai privata del desiderio.

L’individuo non si potrà mai divincolare dal desiderio, in quanto egli è chiara manifestazione di questo stato d’animo. Attenzione, si è appena definito il desiderio come uno stato d’animo, non come un sentimento. Se volessimo condurre un’analisi introspettiva, focalizzeremmo il desiderio in noi stessi come un perenne stato d’animo dell’essere manchevole, che va alla ricerca di qualcosa – di qualcuno. L’unico φαρμακός – farmaco – capace di curare questa passione è l’esercizio dell’azione senza finalismi. A questo proposito, Pierre Hadot, traducendo lo stoico Epitteto, riporta: “Non cercare di fare in modo che ciò che accade accada come desideri, ma desidera che ciò che accade accada come accade, e il corso della tua vita sarà lieto” (Hadot, 2006)

Un’esortazione, quella stoica, che riecheggia la formula dell’amor fati, tanto cara a Nietzsche: quell’impeto amoroso di volere intensamente il reale, quasi in maniera viscerale. Eppure, qui sorgerebbe una naturale obiezione: l’amore – seppur nei confronti del Destino – non è tale perché mosso da un incessante desiderio? Come si può, allora, amare la vita per come essa è, astenendosi dal desiderio di un qualcosa? Ed ecco che, emulando quasi un iter dialettico, il cerchio trova il suo punto di contatto nel tema delle stelle. Il desiderio è sì, una condizione di deficienza umana, ma è altresì il catalizzatore delle più soddisfacenti sensazioni. Alessandro D’Avenia riflette sottilmente su come ogni fase della vita di un uomo sia intrisa di speranza e/o desiderio. Dice: “Perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle)” (D’Avenia, 2016).

E. Munch, Sotto le stelle (1900-1905)

Il firmamento, il chiarore celeste, gli astri non condividono la stessa natura dell’uomo, ma puntare ad essi, essere il riflesso della loro lucentezza significa portare questa stessa luce negli abissi. Solamente quando l’uomo imporrà le sue azioni al tempo e alle altre cose, quando il pastore avrà il coraggio di mordere quel maledetto serpente, soltanto in quel momento non sarà “più un pastore, non più un uomo, – un  trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!” (Nietzsche, 1983). Fissiamole le stelle, stupiamoci della loro brillantezza, esprimiamo un desiderio quando ne vediamo cadere una, purché quel desiderio possa essere realizzato qui, adesso, sulla terra e non altrove. Impariamo a vivere ora, ininterrottamente mossi dal seme della speranza.

Sperare non è il vizio dell’ottimista, ma il vigoroso realismo del fragile seme che accetta il buio del sottosuolo per farsi bosco

(D’Avenia, 2016)

Ma l’uomo non ha mai smesso di relazionarsi con le stelle.

Siamo nel 1972, e la BBC trasmette a Top of the Pops David Bowie. Capelli arancione carota, trucco leggero e una chitarra tra le braccia, il Duca Bianco intona Starman. Da molti considerato il pezzo che ha cambiato la storia, quell’intreccio fra mistico e quotidiano ha lasciato spazio a molteplici interpretazioni, segnando e facendo sognare generazioni senza tempo. La canzone, ad un certo punto, recita:

C’è un uomo delle stelle che attende in cielo
Ci ha detto di non sprecare questa occasione
Perché lui sa che ne vale la pena
Mi ha detto:
lascia che i bambini lo perdano
lascia che i bambini lo usino
lascia che tutti i bambini ballino

Siamo nuovamente difronte ad un catasterismo? L’“uomo delle stelle”, in quanto tale, adesso è veramente pago di se stesso? Sono interrogativi a cui difficilmente si potrà trovare risposta, ma una cosa è certa: anche in questo caso, l’“uomo delle stelle” volge il suo pensiero al mondo della fisicità, esortando a non sprecare questa occasione / Perché lui sa che ne vale la pena.

Riferimenti

  • Albini, G. 1931. Il carme LXVI di Catullo e il nuovo frammento di Callimaco, Bologna: Azzoguidi
  • D’Avenia, A. 2016. L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Milano: Mondadori
  • Hadot, P. 2006. Manuale di Epitteto, Torino: Einaudi
  • Keats, J. 1848. Life, Letters and Literaty Remains of John Keats, Londra: Edward Moxon
  • Leopardi, G. 1845. I Pensieri in Opere, Firenze: Le Monnier
  • Nietzsche, F. 1983. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano: Adelphi
Author profile

Classe '99.
Ho conseguito la maturità classica nel 2018, ad Agrigento.
Dottoressa in Scienze Filosofiche presso l'Università di Catania; collaboro per Etica-mente.

Mi astengo dal giudizio, ma non dalla ricerca del sapere.

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