Tooker, The Government Bureau

Etciù, Salute! Salutismo, consumismo, greenpassismo

Il diritto alla salute non è più in discussione. O forse sì. O forse non abbiamo ancora capito che cosa intendere per salute.

Nell’Ottobre del 1973, l’Avvocatura dello Stato affermò dinanzi alla Corte Costituzionale – che stava esaminando la legittimità della legge del 1942 che istituiva il Monopolio dei tabacchi, che «il fumo è assimilabile ad una fonte di energia fisico-psicologica. La nicotina, psicoeccitante immediato, favorisce la concentrazione intellettuale e migliora le prestazioni psichiche. […] La produzione e la distribuzione del tabacco, dato l’aspetto sociale, farmacologico e psicologico del fenomeno, è senz’altro qualificabile come servizio pubblico essenziale» (L’Unità, 18 Ottobre 1973). Appena due anni dopo, con la legge 584/1975, l’Italia vietava il fumo su tutti i mezzi di trasporto pubblico. Da lì, è stato un continuo susseguirsi di limitazioni e divieti. Dal 19 Gennaio 2021, a Milano, è vietato anche il fumo all’aperto in presenza di altre persone nel raggio di 10 metri (Regolamento per la qualità dell’aria, 19 Novembre 2020). Un caso di distanziamento sociale da fumo.

Nel giro di pochi anni, una pratica diffusa e spesso iconica in molti film è pressoché scomparsa: quella di fumare una sigaretta. Il fumo è bandito ovunque, il tabagista è visto come un vizioso, incapace di controllare le proprie pulsioni. La libertà del fumatore è soppressa in nome della minaccia del fumo passivo, della mia libertà a non respirare l’altrui fumo. Sono ancora libero di congelare al freddo dell’inverno fuori dall’ufficio, in una gabbia che sa di segregazione, per godere della maledetta nicotina. In nessun ufficio pubblico il fumatore potrà entrare fumando. Su nessun aeroplano, su nessun treno il fumatore può fumare. Sarà mica apartheid? Suona più come self-apartheid, semmai. Il fumo è solo un esempio: potrei citare l’alcol – specialmente nei minori o in gravidanza – o il dibattito ancora aperto sulle droghe leggere.

Questa è l’epoca del salutismo. In nome della salute si limita la libertà individuale, se questa libertà in un qualche modo lede il diritto alla salute altrui. Non sembra un argomento molto complicato da comprendere. E sembra distillare gran parte delle teorizzazioni filosofiche sulla libertà, da Locke a Hume a Mill. Che cos’è successo dunque alla salute? La salute si è ammalata, direbbe un medico. Adepti di Weight Watchers inauguravano i fulgidi anni Sessanta a suon di pozioni dimagranti e fantomatici intrugli mirabolanti. La vera battaglia che il consumismo del boom economico esigeva dai paladini del dimagrimento e dello snellimento salutistico doveva essere diretta contro gli effetti della stessa equazione capitalistica: benessere economico + offerta smisurata di cibo = obesità. Il capitalismo ci rendeva più ricchi e così più ciccioni e, come una novella religione che ci spaventa con le storie sull’inferno e insieme ci presenta i rimedi per redimerci, ci vendeva il male e l’illusoria soluzione al male in comode confezioni famiglia o in offerte 3×2.

Weight Watchers ha cambiato logo e nome nel 2018 per un focus maggiore sul “wellness” (benessere)

Il salutismo è all’opera vistosamente nella pandemia di COVID-19. Nient’altro. Molti riportano alla memoria le tristi dittature del passato, mostrandosi ridicoli nel non capire due cose insieme, che cosa siano state quelle e che cosa sia una pandemia. Ma questa pandemia è diversa: l’umanità ha sempre vissuto con un ambiente ostile e con agenti patogeni variamente belligeranti. Stavolta non solo vogliamo sconfiggere il nemico – secondo il credo «o l’amicizia preziosa o l’ostilità durissima» – per sopravvivere, ma vogliamo farlo perché abbiamo un’idea precisa di che cosa significhi vivere e vivere bene: la Dichiarazione di Alma Ata del 1978, stilata al termine della Conferenza internazionale sulla salute promossa dall’OMS e dall’UNICEF, affermava al Punto 1: «La Conferenza ribadisce con forza che la salute, stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità, è un diritto umano fondamentale e riafferma che il raggiungimento del maggior livello di salute possibile è un risultato sociale estremamente importante in tutto il mondo, la cui realizzazione richiede il contributo di molti altri settori economici e sociali in aggiunta a quello sanitario». Essere-in-salute e ben-essere sono diritti fondamentali sociali – non già solo individuali –, cioè sono diritti collettivi e, soprattutto, sono collegati: la salute è uno stato di completo benessere.

P. Bruegel, Trionfo della morte (c. 1562)

C’è da chiedersi se il salutismo sia la dittatura sanitaria di cui molti parlano, specialmente schierandosi contro Green Pass, vaccinazioni di massa e altri rimedi. Come conclude Marcello Veneziani, nella sua apologia di Cacciari e Agamben, «la tecnica non basta, la libertà non si sacrifica alla salute, la sanità non esaurisce il campo delle umane possibilità. Vivere non basta» (La Verità, 1 Agosto 2021). Sorvolo sul fatto che bisognerebbe chiarire al buon Veneziani che l’essere umano è tecnico per definizione: e se “la tecnica non basta” è perché ce ne vuole di più e di più evoluta. Del resto, le malattie che in passato non si sconfiggevano con la tecnica medica hanno richiesto un avanzamento di quella stessa tecnica: nel vuoto della tecnica, è bene ricordarlo, proliferano e prosperano santoni, santini e sante inquisizioni. 

Pandemia, lockdown, Green Pass, tamponi… nessuna follia collettiva, nessuna dittatura subdola – o che siano gli alieni che John Carpenter aveva piazzato nella leadership mondiale di Essi vivono? Dovremmo allora dotarci di occhiali da sole speciali – i wayfarer potrebbero essere una grossa strategia di marketing diversivo – anziché di green pass, per poter finalmente scovare gli scheletri che ci impongono sieri sperimentali e i loro messaggi subliminali: dietro a un cartellone “Enjoy Coca-Cola” potrebbe esserci un “bevi-consuma-crepa”, e una pubblicità di Booking.com potrebbe essere “spendi il tempo che il lavoro ti concede, schiavo!”, sulla scia del pacchetto-vacanze descritto profeticamente da Debord. Dietro alla campagna vaccinale, dunque, ci sarebbe un messaggio di richiesta di obbedienza ovina anziché divina. In realtà, come ricordava Pasolini, la società del consumo è riuscita là dove il fascismo è fallito: nella creazione di una omologazione di massa. Il salutismo ne è un tratto. Ricordo bene le confezioni di vari farmaci anti-reflusso gastrico negli Stati Uniti che offrivano coupon per pizze e cinema per poter mantenere il circolo vizioso sempre vivo: il salutismo è l’altra faccia del consumismo. Devi mangiare i nostri prodotti confezionati-surgelati-super fast; se ci stai male, abbiamo il rimedio per te, così puoi tornare a mangiare i nostri prodotti, sempre meglio confezionati, ancora più surgelati, sempre più fast; non vuoi l’hamburger? Eccoti un bel beverone dimagrante ipersnellente.

Campagna di Fandango

Durante questa pandemia molti si sono affannati a distinguere tra “vivere” e “sopravvivere”, ma, in effetti, è chiaro che prima di poter vivere, bisogna in un qualche modo sopravvivere. Lo spiegava brillantemente Ortega y Gasset, con la sua illuminante definizione della tecnica come produzione del superfluo. È grazie alla tecnica se possiamo evitare di andare ogni giorno al pozzo, distante 5 km, per prendere dell’acqua; è grazie alla tecnica se, avendo fame, apro semplicemente un oggetto abbastanza insignificante chiamato frigorifero, anziché dover avviarmi ad una battuta di caccia o di raccolta di semi e bacche vagamente commestibili. Ed è grazie alla tecnica che, evitando questa fatica, divento obeso e mi iscrivo in una tecnologica palestra e assumo tecnologici integratori alimentari iperdietetici, che la tecnica medica mi ha raccomandato, visto il livello di colesterolo nel mio sangue – quale meraviglia tecnica e quale progresso fantascientifico poter misurare il livello di colesterolo nel sangue! 

Va da sé che nessuno penserebbe di passare la propria vita solo a controllare il colesterolo che si accumula – in linea con lo spirito capitalistico – nelle arterie: la vita è certamente altro. Ma è altrettanto vero che si dimostra poco amore per la vita stessa se ce se ne infischia del suo stato di salute. Salus rimanda ad una radice sanscrita che indica salvezza, sanità, integrità, incolumità. Salute è salvazione, è rimando al benessere e al viver sani – come ricordano i nomi di molte riviste del settore. Insomma, la salute, se non è la felicità, certamente ne è un ingrediente basilare. Quando stiamo male non siamo felici. Felix è da φύω, “produco, genero”, da cui φύσις, con riferimento alla natura feconda: Roma felix arbor felix sono la fertilità, la produttività. E così è fetus, il fecondato perché fecondo. Insomma, chi è in salute è un po’ più felice, in quanto prospera, è fertile e fecondo, cioè produce. Felicità e libertà sono strettamente legate come hanno avuto modo di spiegare Sen prima e Nussbaum poi. Ma già la sintesi latina della mens sana in corpore sano ricorda che difficilmente possiamo vivere e prosperare felicemente se il nostro organismo non funziona. Ecco la parola magica: funzionamento, come recita il nuovo slogan di Weight Watchers, wellness that works, benessere che funziona. In effetti, il fare-produrre-generare del phy-felix non è altro che l’essenza stessa della tecnica, come produzione. La tecnica realizza la piena progettualità dell’essere che, come tale, è finché è tecnico – con buona pace di Veneziani. Platone lo affermava, Galimberti e Severino lo spiegavano: ciò che è tecnico, cioè produce o è prodotto, è; ciò che non è tecnico, non è – andrebbe precisato che tutta la tecnica è, infine, un nichilismo, perché ogni produzione implica un consumo, cioè un annichilimento del prodotto.

Ma restiamo alla questione della salute: se ciò che è è in quanto può produrre o essere prodotto, è necessario che ciò che è sia in buona salute, affinché possa operare nel sistema produttivo, possa essere operativo, cioè operaio, o come consumatore, insomma funzionare – e in effetti Flusser ricorda che ormai l’essere umano è solo un funzionario. Il ciclo produzione-consumo esige salute. Ed esige salute non solo sulla base della possibilità produttivo-consumistica, ma anche sulla base del corollario di ogni produzione: l’economicità. Essere in salute, mantenersi in salute o il mantra “prevenire è meglio che curare”, sono i requisiti di ogni possibilità ontologica per la società della produzione e del consumo, cioè della società tecnica. Ho definito questa società nel suo insieme società del funzionamento. Il Green Pass, il vaccino, il tampone sono strumenti di compromesso che provano – non senza distorsioni – a mantenere l’equilibrio produzione-consumo ai livelli del funzionamento standard. Il Green Pass non serve a stabilire chi è immune, chi è positivo, chi non lo è – non in prima istanza: il Green Pass serve a stabilire chi funziona, chi rientra nel sistema del funzionamento, senza grossi rischi di intasare terapie intensive, cioè senza grossi rischi di ammalarsi seriamente e di gravare sui costi della sanità pubblica, senza grossi rischi di astenersi dal produrre-consumare.

Molti ricordano, dunque, che vivere non è sopravvivere; che non basta la salute per vivere; che la vita è molto di più, molto altro. Veneziani precisa che “la tecnica non basta”: ma è proprio la tecnica che ci permette non di vivere, ma di vivere bene – non viviamo per estar, ma per bienestar, scriveva Ortega. Nessuno vuole vivere solo per bere o per mangiare, ma anche per bere bene e mangiare bene. E si dà il caso che spesso, senza una buona salute, in malattia, in fragilità, non si fa altro che sopravvivere. Allora si invoca lo spirito del bon vivant, un bicchiere di vino e un buon cubano, e allo stesso tempo si dice che la salute non è tutto. Bisognerebbe chiedere a un moribondo se preferisca vivere o, almeno, sopravvivere. Altrimenti finiamo davanti a un vicolo cieco: un inno alla libertà che mal cela un bieco egoismo e una totale mancanza di senso di civiltà – la mia libertà, la mia vita, la mia felicità – come se si vivesse fuori da ogni collettività. Non ho mai sentito, del resto, nessun epidemiologo o virologo affermare che il vaccino rende felici. Il benessere di una persona non è il suo solo respirare; ma si deve pur tuttavia respirare se si vuole anelare ad un qualche sogno di felicità.

De Crescenzo ricordava che ci affanniamo tanto ad allungare la vita, quando invece bisognerebbe studiare come allargarla. Un po’ come precisava Epicuro nella sua Lettera sulla felicità, «il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce» (126). L’epoca del salutismo, corollario del consumismo (ché se non si è in salute, come si consuma?), implica grandi pericoli: la salute, nella sua accezione di benessere completo, rischia di diventare un’ossessione per alcuni (i salutisti), un requisito per altri (agenzie assicurative o datori di lavoro), un criterio economico (non ti curi, paghi le cure). La salute come funzionamento rischia di produrre le distorsioni tipiche del funzionamento tout court: valutazione, standardizzazione, parametrizzazione, certificazione: la burocratizzazione su cui si regge ogni società del funzionamento ama le certificazioni, le valutazioni, le griglie. È l’epoca del greenpassismo: raccogliamo attestati, abilitazioni, certificazioni linguistiche, professionali, scolastiche, mediche per tutta la vita e facciamo a gara a chi ne ha di più su LinkedIn. Il salutismo e il greenpassismo si sposano alla perfezione con il militarismo, l’ossessione del controllo, della sicurezza pubblica: telecamere e app che scansionano codici QR si rafforzano mutuamente. La stessa medicina scivola spesso nel vortice del funzionamento e tenta di curare il paziente come fosse un apparato meccanico, in cui gli ingranaggi devono essere tutti al loro posto. Ecco, questa è una visione riduzionistica, appunto funzionalista, della salute, che invece mira, è bene ricordarlo, ad un benessere psico-fisico completo.

L. De Crescenzo, 32 Dicembre (1988)

Dunque, non solo vivere o vivere a lungo, ma vivere bene, dolcemente, felicemente; non solo estar, ma bienestar, benessere, cioè, appunto, essere-in-salute, felix, prosperare. Francamente, a questo punto, non si capisce che cosa intenda chi afferma che la salute non basta per vivere e vivere bene. Il problema, semmai, è che viene propagandata un’idea di salute come funzionamento, lontana dal concetto di salus e dalle indicazioni di Alma Ata. Chi non comprende che la salute oggi sia svilita a mero esercizio funzionale – wellness that works – porta avanti un’idea semplicisticamente romantica della salute, ormai superata e forse mai davvero praticata, ignorando che la salute è adesso un diritto collettivo e un bene sociale. E sembra, più che altro, rievocare la barzelletta dell’anziano che, andando dal dottore, ricevendo come consiglio medico quello di non bere più, di non fumare più e di non fare più l’amore, rispondeva “e che campo a fare?!”: un po’ poco per costruirci su una parvenza di filosofia della libertà; a meno che non si spaccino per libertà e per felicità la mia libertà e la mia felicità (“La mia felicità / Voglio perdermi e poi si vedrà“). E allora il massimo di salute che potremmo augurare agli altri e forse perfino a noi stessi è “salute!” dopo un “etciù!”. Ma coniugare correttamente felicità e salute non era dopotutto più complicato del cantare Rovazzi: bastava ricordare la Lettera che Voltaire inviò all’Abate Trublet il 17 Aprile 1761: «Ho deciso di essere felice perché mi è stato detto che fa bene alla salute» (Voltaire, Oeuvres Complètes, Tome 38, Hachette 1891, p. 240).

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Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.

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