“Finché consumismo non ci separi”: l’individuo tra merce e persona

Il consumismo è la società dei consumi, nella quale uomini e relazioni diventano oggetti del desiderio effimero ridotti a merce. Possiamo collegarci con chiunque in rete grazie alla tecnologia, ma siamo sempre più sconnessi “umanamente”. È partendo da questa affermazione, forse troppo banale e per certi aspetti anche confusionaria, che si delinea il quadro della società attuale. Una massa di individui apparentemente connessa ma realmente isolata. Un agglomerato che si compone di singole parti incapsulate. Amore liquido introdotto da Zygmunt Bauman rappresenta perfettamente la nostra epoca moderna dove a dominare è la fragilità dei legami umani. La tendenza consumistica ci ha insegnato cosa significhi il termine disaffezione, l’idea che tutto e tutti siano passeggeri. Nella vita liquido-moderna non ci sono vincoli e il premio sta nel sapersi sbarazzare il più in fretta possibile delle cose e delle persone (alla fine anche queste ultime diventano dei meri oggetti da cui trarre vantaggi e da buttare via nel momento in cui diventano inutili ai nostri fini). Ogni cosa diventa facilmente irrilevante, un peso di cui sbarazzarsi.

Il prezzo che si paga, in termini di qualità di vita, è troppo alto: se è vero che l’uomo è un animale sociale come precisava Aristotele, allora si trova davvero male nel mondo contemporaneo dove sempre più spesso egli deve fare i conti con una perenne sensazione di solitudine e isolamento non indifferenti. L’ideologia consumistica oggi ci inculca sempre più spesso che tutto tende a essere oggetto destinato a soddisfare il nostro piacere e, quando esso viene meno nella sua funzione, lo si può sostituire con un altro oggetto facilmente reperibile grazie ai mezzi di cui si dispone. La salvezza sta nell’eccesso di opzioni di scelta. Se una macchina si rompe si provvede ad acquistarne una nuova, se una persona non ha più nulla da offrirci allora è giunto il momento di provvedere a una sostituzione. I social sono l’esempio lampante di come si articola una relazione: una richiesta di amicizia, il tentativo di suscitare reazioni tramite la pubblicazione di contenuti e l’interazione attraverso i servizi di messaggistica sono alla base del meccanismo di approccio. È un’azione che si caratterizza per la velocità, più velocemente una connessione si crea tanto più facilmente può essere annientata per lasciare spazio a nuove connessioni. Così si tende alla standardizzazione, a privare di valore ogni elemento e ad azzerare i punti di riferimento.

In un mondo dove tutto si consuma in un batter d’occhio l’essere umano non ha più nulla di concreto a cui appigliarsi e pone tutto ciò che lo circonda sullo stesso livello. Tutto smette di avere senso dal momento che non è più necessario trovarne il senso e la comprensione diventa una perdita di tempo di fronte a tante superficiali distrazioni. Del resto, come affermerebbe Bauman:

“Ci sono sempre altre connessioni da usare, e dunque non è poi così spaventosamente importante quante di esse potrebbero dimostrarsi fragili e spezzarsi. E non importa neanche il ritmo al quale si logorano e si spezzano. Ciascuna connessione può anche durare poco, ma la loro sovrabbondanza è indistruttibile”.

Perché impegnarsi in una relazione con l’alta probabilità di perdere qualcosa, quando si può sempre optare per una connessione rapida e indolore che non abbia vincoli? È molto più facile gestire tutto in maniera superficiale, meglio se direttamente da dietro uno schermo, in modo tale che possiamo tagliare i ponti senza dover realmente affrontare l’altro. Basta un non visualizzato, un messaggio senza risposta o una cancellazione dalla lista dei propri contatti per alleggerirsi la vita senza dover incorrere in alcuna presa di posizione che possa rivelarsi rischiosa. Ma non solo.

È paradossale che in una società dove le tecniche di comunicazione sono facilitate da mezzi come i social, l’essere umano sia totalmente incapace di saper comunicare. Fa ormai parte della quotidianità di ciascuno imbattersi in scene di totale indifferenza e, se vogliamo, di isolamento: in metro, in autobus, per strada o a tavola gli altri ci sono fisicamente ma sono assenti mentalmente. Tutti con gli occhi rivolti verso uno schermo che, senza rendersene conto, divora una larga quantità di tempo che potrebbe essere investita in maniera più costruttiva. È sempre più difficile aspettarsi che qualcuno ascolti le nostre parole, prenda seriamente parte al nostro dialogo e riesca ad avere un confronto degno di essere definito tale. Gli occhi che riflettono la luce dello schermo e la testa altrove, senza troppe esagerazioni, potrebbero essere considerati il simbolo del declino dell’essere umano. La realtà diventa sempre più virtuale, nessuno è disposto ad ascoltare. Per un attimo può anche capitare di chiederci se esistiamo davvero di fronte a semplici sagome che si muovono e viaggiano velocemente senza possibilità di essere afferrate poiché, nella realtà dei fatti, inconsistenti. Tutto è freddo e la sensazione di sentirsi inevitabilmente distanti da un mondo al quale sembriamo sempre meno appartenere non fa che acuire quella solitudine opprimente.

Toccare lo schermo di un cellulare è molto più comune, e forse molto più socialmente accettato, che sfiorare una mano altrui. Ci si perde nell’universo della rete e ci si dimentica ben presto della sintonia tra noi e il mondo/tra noi e gli altri. La forma ha ufficialmente superato la sostanza: ci attira un determinato cibo perché meglio esaltato esteticamente in foto, così come un corpo può attrarre per lo stesso motivo. Ma cosa c’è oltre? C’è qualcuno che ancora se lo chiede? In tal senso Bauman ci fa notare come tendiamo a “trattare gli altri esseri umani come oggetti di consumo in base alla quantità di piacere che possono offrire”. Trattiamo gli altri come mezzi per arrivare al nostro piacere e dunque, più che amore, è egoismo. Penso di amare qualcuno nel momento in cui quel qualcuno può essere utile ai miei fini ma, se non sussiste alcun compromesso e non si può trarre alcun giovamento, che senso ha iniziare o continuare una connessione (un legame non sia mai)? Sono interrogativi a cui ognuno risponde in maniera diversa, secondo differenti punti di vista, ma un aspetto è quasi certo e comune per tutti: fare di sé l’esclusività. In un mondo dove è facile connettersi e sconnettersi con e dagli altri, dove tutto è apparentemente uguale e posto sullo stesso livello di interesse (o forse si abbina meglio il termine disinteresse), si sente l’esigenza di distinguersi dalla massa unita sotto un unico volto.

Trattando gli altri come oggetti, probabilmente ci si sente anche in prima persona un oggetto. L’essere umano adesso ha bisogno di costanti approvazioni che possono derivare anche solo, per esempio, da un like a una foto postata. Ci si può sentire utili o inutili, proprio come un oggetto, in base alle sensazioni che riusciamo a suscitare nell’altro. Abbiamo bisogno di sentirci approvati, apprezzati. Non è facile apprezzare se stessi se il mondo attorno ci rifiuta. Attraverso questo meccanismo che investe le dinamiche sociali ci si distrugge a vicenda. L’isolamento, amplificato in epoca Covid per via delle restrizioni anti-contagio, è una piaga perenne dell’umanità ormai a corta di mezzi per salvarsi ma che, al contrario, dispone solo di mezzi per distruggersi ulteriormente. Possiamo essere tutto e niente, o viceversa, e bastano pochi istanti per tale processo. In un mondo dove le connessioni sono più gettonate rispetto ai sentimenti, tutto si consuma facilmente e superficialmente, in che dimensione etica si colloca l’essere umano? In questo grande schermo che ci distrae dal mondo che ci circonda si consuma ogni giorno la rovina umana sotto occhi indifferenti e sempre più impegnati a seguire le mode, le news del momento, le nuove richieste di amicizia o gli ultimi like a una foto. La sensibilità, la presa di coscienza di una data situazione o di un dato legame, sembrano essersi dissolte per sempre.

Mentre il mondo muore, gli occhi restano incollati davanti a un telefono, nella speranza che qualcuno ci salvi dal senso di torpore e ci sveli quale sia il reale senso di questa esistenza ma, soprattutto, cosa significhi sentire e di conseguenza vivere. Fingere e adeguarsi alla finzione, invece, è ormai l’arte prediletta. Dove sono gli occhi? Dov’è il mondo in mezzo a questa massa di gente che si muove in mille direzioni ma smarrisce il suo obiettivo? Affidiamo il potere a un tasto, a un click, a un tocco sullo schermo dimenticandoci presto di cosa sia il calore umano. Sempre più robot, sempre meno uomini in quanto animali sociali (ricordando ancora una volta Aristotele). Forse un giorno, a somme tirate, si potrà affermare che aveva ragione Bauman nel pensare che tutto diventa materiale di scarto?

Essere autentici è un’etichetta che va di moda. Predichiamo il vero ma non sappiamo metterlo in atto. E forse, in fondo, la finzione ci piace perché ci fa sentire per un attimo leggeri… prima di ricadere in quel grande vuoto interiore che cerchiamo di camuffare agli occhi altrui. In un groviglio di risposte confuse che affollano la mente, parliamo di legami con la convinzione di esserne i detentori, senza renderci conto che stiamo calpestando un sentimento mercificandolo. “Ti amo perché ho bisogno di te”. O ancora. “Ti amo finché non mi stancherò”, finché non ci sarà la novità che indirizzerà la mia attenzione verso altri legami-oggetto. Finché nella vetrina (di un social probabilmente) non si presenterà una nuova conoscenza “conveniente” ai propri fini.

Il consumismo ci ha insegnato a non essere mai soddisfatti, a essere insaziabili, a volere sempre di più. Il paradosso del consumo consiste nel riconoscimento di un vuoto che, ogni volta, cerchiamo di colmare invano nutrendoci sempre e comunque di cose effimere. La voragine interiore chiede di essere riempita e lo facciamo non soltanto col cibo buono più alla vista che al palato, o con le nuove scarpe in offerta, ma soprattutto barattando i sentimenti come se fossero merce di scambio: “Se io ti do tanto, tu quanto mi dai?”. Ci promettiamo il “per sempre” ma un attimo dopo siamo già stanchi.

Calza a pennello quanto predicato dallo scrittore Victor Hugo: “Guai a chi avrà amato solo corpi, forme, apparenze. La morte gli toglierà tutto. Cercate di amare le anime. Le ritroverete”.

Sarà l’eterno conflitto – tra l’essere merce e l’essere persona, tra “corpo” e “anima” – che non sappiamo risolvere e che, forse, neanche vogliamo ormai provare a risolvere. Stiamo costruendo dei veri legami o sono delle semplici connessioni usa e getta? L’altro è visto solo in funzione dei propri interessi o si riesce ad andare oltre e a considerarlo, non più come un oggetto inanimato utile ai propri scopi, ma un corpo con una pienezza d’animo? Siamo in grado di discernere queste differenze? Dovremmo fermarci un attimo, ma non c’è mai tempo per pensare in questo mondo dove il consumo corre veloce.

Ci promettiamo eterno ripetendo una frase, che forse dovremmo rivedere. Nel dubbio (e nella fretta): “Finché consumismo non ci separi”.

Riferimenti bibliografici
Bauman, Z. 2017. Amore liquido. Roma-Bari: Laterza.

Author profile

Osservare e analizzare il mondo per una maggiore comprensione degli altri e di noi stessi, della vita.
Sono giornalista pubblicista e laureata in Scienze della Comunicazione.

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