Chardin – Bubbles

Come i pesci dentro l’acqua: la forza dell’abitudine

“Fish are the last to recognize water” – i pesci sono gli ultimi a riconoscere l’acqua. Con questa frase, Alan Fletcher (2001, p. 104) sintetizza una antica riflessione, che mette insieme abitudine e meraviglia, e che va dal mito della caverna di Platone al film The Truman Show: crediamo al mondo in cui siamo immersi, lo diamo per scontato. Posta in altri termini, la questione recupera un celebre assunto di Wittgenstein: “Gli aspetti delle cose che sono più importanti per noi sono nascosti a causa della loro semplicità e familiarità” (2009, § 129).

Questo preambolo ha un perché: il tentativo di confermare che la realtà non esiste o, meglio, che non esiste che la realtà che per ciascuno esiste. Non si tratta del riduzionistico empirismo alla Berkeley, bensì dell’affermazione di un presupposto ineliminabile allorché si inizi a parlare di realtà: e cioè, che quando parliamo di realtà, vi siamo già immersi e molti tratti di essa non ci appaiono, come l’acqua per i pesci.

Perché è così difficile – come fossimo pesci – notare “l’acqua”? Perché ci è familiare e abbiamo perso ogni stimolo sensoriale. Ricorrendo ad un altro concetto caro alla filosofia, si è creata un’abitudine, contro la quale si staglia la meraviglia, come fosse un antidoto. Come ricordava McLuhan (1970) – quasi come una riduzione eidetica fenomenologica – nel distinguere tra cliché archetipo, dovremmo avere la capacità di mettere in discussione tutto, di non dare nulla per scontato, di essere incuriositi sempre. “Sorprendersi, meravigliarsi è l’inizio di ogni comprensione”, affermava Ortega y Gasset (1937, I).

Ma l’abitudine è la vera malattia mortale. Le tradizioni in cui sono radicate le emozioni e l’immaginazione di molti esseri umani, talvolta perfino ratificate in istituzioni, sono montagne dure da scalare: “La vis inertiae dell’abitudine è tremenda”, ricordava Dewey (1929, p. 246). E ci conduce perfino a dimenticare, a non saper più ricordare (si veda per esempio You Must Please Remember).

In altri termini, la realtà è un’articolazione progressiva di noumeni che si fenomenizzano e che acquisiscono un senso come parvenze per il singolo soggetto. Se la realtà è la costruzione dell’individuo, il quale ordina e riordina il materiale che lo circonda in esperienze dotate di un senso tutto personale, qual è il criterio di verità dunque? Il criterio di verità non è dato da un principio sostantivo, cioè dal contenuto, ma dalla accettazione sociale: ciò che è reale è ciò che è socialmente plausibile, accettabile, condivisibile, non ciò che è vero – il quale concetto di vero si svuota, peraltro, di significato.

La realtà è una costruzione sociale, come ben sottolineava Searle. Se decidessimo di educare i nostri figli facendo frequentare loro luoghi sacri alternativi e se li iscrivessimo presso scuole catechistiche che professano l’insegnamento di Babbo Natale, è probabile che avremmo adulti che un giorno a settimana si recherebbero presso il Tempio di Babbo Natale più vicino e che, assaggiando un pezzo di bastone zuccherato, crederebbero di ricongiungersi a lui. Perché ciò che conferisce realtà a ciò che crediamo non dipende dalla sua veridicità – dal suo contenuto di verità o falsità – bensì dalla sua strutturazione sociale.

Eppure, la realtà si costruisce a partire dal materiale sensibile, da ciò con cui possiamo entrare in contatto sensibile, lo aveva ben spiegato Kant. In effetti, Kant si sofferma solo su un aspetto della vicenda: la realtà che non appare, non già la realtà che smette di apparire. La grande intuizione kantiana sta tutta nei §§ 3 e 4 della Dottrina trascendentale degli elementi, nonché nelle Osservazioni generali sull’estetica trascendentale:

“I predicati del fenomeno possono essere attribuiti all’oggetto stesso, in relazione al nostro senso; per esempio, alla rosa può esser attribuito il color rosso o il profumo. Ma la parvenza non può mai essere attribuita all’oggetto come suo predicato, appunto perché si attribuirebbe all’oggetto per sé ciò che gli spetta solo in relazione ai sensi o in generale al soggetto” (1868, § 8).

Che è quanto andavano spiegando Locke e Hume quando parlavano di qualità primarie e secondarie. Prima della nota 1 del § 8, la rosa rossa viene impiegata da Kant nel § 3:

“Ciò che originariamente è soltanto fenomeno, viene inteso in senso empirico come una cosa in se stessa, la quale, tuttavia, quanto al colore, può apparire diversamente ad occhi diversi” (1868).

Del resto, come Rica faceva notare all’amico Usbek,

“mi pare, Usbek, che noi giudichiamo le cose sempre in base a un riferimento segreto a noi stessi. Non mi sorprende che i negri dipingano il diavolo di un candore abbagliante e i loro dei neri come il carbone; che la Venere di certi popoli abbia mammelle che le arrivano alle cosce; che infine tutti gli idolatri abbiano rappresentato i loro dei in figura umana e gli abbiano attribuito tutte le loro inclinazioni. È stato detto molto bene che, se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero tre lati” (Montesquieu, 1873 LIX).

Ciò perché, se i triangoli si facessero davvero quel dio, essi potrebbero soltanto usare il materiale a loro disposizione: angoli e lati in numero di tre. Forse essi creerebbero un dio scaleno e misericordioso, oppure isoscele e vendicativo; o, ancora, equilatero, se la loro teologia lo pensasse perfetto. Del resto, è un po’ incoerente e bizzarro credere che i triangoli farebbero un dio barbuto: non tanto perché i triangoli sono privi di immaginazione o sono poco creativi, quanto piuttosto perché i triangoli utilizzerebbero il materiale presente nella loro realtà e io non ho mai visto triangoli con la barba. Né pesci vivi fuori dall’acqua. Almeno, non per loro abitudine.

Riferimenti bibliografici

  • Dewey, J., 1929. The Quest for Certainty. Carbondale, IL: SIUP.
  • Fletcher, A., 2001. The Art of Looking Sideways. London: Phaidon Press.
  • Kant, I., 1868. Kritik der Reinen Vernunft (1781). Leipzig: Voss.
  • McLuhan, M., 1970. From Cliché to Archetype. New York: Viking.
  • Montesquieu, 1873. Lettres persanes (1721). Paris: Lemerre.
  • Ortega y Gasset, J., 1937. La rebelión de las masas. Madrid: Espasa Calpe.
  • Wittgenstein, L., 2009. Philosophical Investigations (1953). Oxford: Basil Blackwell.
Author profile

Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.

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One Reply to “Come i pesci dentro l’acqua: la forza dell’abitudine”

  1. I suoi parallelismi sono molto esaustivi. Mi permetta di esprimere il mio “ secondo me” . E dunque penso che i triangoli non sentano il bisogno di colmare un vuoto , perché già chiusi da tre rette , ne probabilmente i pesci sentano l’esigenza di uscir fuori dall’acqua, quindi non supereranno mai il proprio limite biologico.
    In fine penso, che l’uomo sia bisognoso di riempire il vuoto lascito dal distacco con Dio ,come una cerva anela all’acqua perché bisognosa di bere. La simbologia sacra di spezzare il pane e condividerlo con altri , certo è molto difficile da spiegare, un gesto con troppo semplice , che racchiude in se significati profondi. Ma se questo gesto, come altri ,viene letto senza “la lente della fede” , ne converrà con me che potrebbe essere tutto frutto di semplice fantasia e diventa facile confondere babbo natale con Dio .
    Concluso dicendole che stimo molto la sua preparazione , spero un giorno poter confrontarmi con lei ah molti temi per me cari.

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