Anna Karina

La filosofia di Godard: le parole ci tradiscono?

La filosofia di Godard stava già tutta in questo interrogativo: “Le parole ci tradiscono?”, domandava Nana al filosofo Brice Parain nel film Vivre sa vie (1962) di Jean-Luc Godard. La cinematografia di Godard è una filosofia delle parole e, come quella dell’amico-nemico Truffaut, ama scovare le pieghe dell’esistenza, quelle che spesso non si raccontano, si nascondono, che ci si affretta a stirare via con una buona dose di appretto. Che l’esistenza sia una combinazione di progettualità e di casualità emergeva già nei lunghi piani-sequenza della Nouvelle Vague, che ammiccava all’esistenzialismo.

Una Francia fintamente ribelle, che si avvolgeva nelle pratiche sessuali promiscue di De Beauvoir e Sartre o si dedicava allo studio della prostituzione (e all’esperienza?) nel gruppo di amici formato da Truffaut, Godard e Polanski. Del resto, come avrebbero potuto criticare la società dei consumi se non ne fossero stati loro i primi consumatori? E su questo si consumò la terribile e insanabile rottura tra Godard e Truffaut. E la prostituta, come il proletario nella teoria di Marx, si ergeva a simbolo di mercificazione, di consumo, di frammentazione di corpi e vissuti, ridotti a brandelli di esistenza, ormai incomunicabile.

Ormai ingurgitata dal mondo della prostituzione, Nana, protagonista di Vivre sa vie, la bella Anna Karina, moglie dello stesso Godard, si lanciava in una conversazione sul linguaggio, le parole, la verità e l’amore: il gentile signore incontrato al bar era infatti filosofo nella finzione e nella realtà – Brice Parain, filosofo francese. E in effetti, lo scarto tra finzione cinematografica, ovvero piano narrativo, e fluire della realtà esistenziale doveva essere ridotto ai minimi termini. Come mostrava, del resto, l’uso di piani-sequenza e long take, che riducevano il montaggio al minimo necessario, secondo la teoria di Bazin (altro punto di rottura rispetto a Truffaut). 

Nana fait de la philosophie sans le savoir, è il titolo del penultimo tableau dei 12 di cui è composto il film di Godard. E domanda al filosofo, “Perché bisogna sempre parlare? Io trovo che spesso si dovrebbe tacere, vivere in silenzio. Più si parla, meno le parole hanno un significato. Forse ci tradiscono?”.


Oltre la filosofia di Godard, le parole non sono sempre un’interpretazione della realtà, già una sua distorsione, perfino una falsità? Se Ortega y Gasset sentenziava che tutte le parole sono avverbi di luogo, Godard liquidava la questione: tutte le parole sono bugie. Possiamo comunicare tutto? Il silenzio è forse assenza di comunicazione, o una modalità del comunicare? Le cose incomunicabili, in quanto non comunicate, comunicano la loro purezza, la loro segretezza, la loro intangibilità. Ed è tutto ciò che possono comunicare; nient’altro. Perciò le cose incomunicabili sono le cose più lontane dalla distorsione della parola, del racconto, della narrazione, perfino di quella più soave e poetica. Le cose incomunicabili, le cose che non abbiamo mai voluto dire, dovuto dire, sono le cose più sincere che avremmo mai potuto comunicare (si veda su questo, per esempio E il tempo tace).

Le cose incomunicabili sono eterne: non finiscono mai, non periscono, non muoiono una volta gettate nel mondo, non volano come le parole — secondo l’indicazione di Caio Tito — ma restano nel mondo del non-detto, del taciuto, del solo pensato, del lungamente immaginato, dell’ardentemente desiderato. Sguardi, gesti, smorfie, pensieri, sogni sono grandi strumenti — i più autentici — della comunicazione. Come Erik Satie, che viveva in una casa di due stanze e una delle due era sempre chiusa: dopo la sua morte, si scoprì che teneva chiusi tanti ombrelli, che collezionava, ma che mai usava. Come dire, il vero ombrello nemmeno va aperto, per evitare che si rompa e smetta di essere un ombrello.

E. Satie, Gymnopédie No. 1

Dunque, se il silenzio è una modalità comunicativa, il silenzio non può implicare l’esclusione dell’altro. Ogni comunicazione, infatti, richiede un’ontologia della co-esistenza, poiché ogni comunicazione è una relazionalità, quantomeno dialogica: io-tu. Il silenzio, così, cessa di essere sinonimo di solitudine, di emarginazione, di frustrazione, di ansia, perfino di incapacità comunicativa, quasi fosse l’orlo di un precipizio autistico o, peggio, solipsistico. La comunicazione diventa l’arte di soppesare le parole, di comprendere l’altro nelle pieghe del non verbale, fatto di sguardi, di odori, di gesti, di ammiccamenti, di silenzi. 


Magritte, influenzato dal non-comunicabile surrealismo di De Chirico, che non riusciva perfino a dare un volto ai suoi personaggi, dichiarò in un’intervista radiofonica rilasciata a Jean Neyens nel 1965: “Qualsiasi cosa non può esistere senza il suo mistero. […] Ogni cosa che vediamo ne nasconde un’altra, e noi desideriamo sempre vedere ciò che si nasconde dietro ciò che vediamo. C’è un interesse per ciò che è nascosto e che il visibile non ci mostra. Questo interesse può assumere la forma di un sentimento abbastanza intenso, un tipo di lotta direi, tra il visibile che si nasconde e il visibile che appare” (Millen 1965, 172).

A. M. Fantetti, Amanti VI (2012)

Nana, quasi al termine della sua conversazione filosofica, non può esimersi dal chiedere al filosofo: “E lei che cosa pensa dell’amore?”, mal celando il pensiero sottaciuto che l’amore autentico sia forse incomunicabile, inesprimibile.

Sì, questa filosofia di Godard, questa mia lettura è un’apologia delle cose incomunicabili, inespresse, un’apologia dell’ipotetico, del condizionale, del potenziale, del chissà, del futuribile, del possibile, dell’aperto-a-tutto. Come in un piano-sequenza di Godard.

Vivre sa vie, di J.-L. Godard (1962)

Riferimenti bibliografici

  • Frodon, Jean-Michel. 1995. L’âge moderne du cinéma français. Paris: Flammarion.
  • Millen, Richard. 1965. “Magritte: Ideas and Images.” In In a Radio Interview with Jean Neyens. New York: Harry N. Abrams.
  • Ortega y Gasset, José. 2016. L’uomo e la gente (1954). Milano: Mimesis.
Author profile

Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.

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