Essere-a-distanza implica che ci sia un lontano e un vicino. Questo perché siamo sempre in uno spazio, perché l’agire umano, l’ethos, è lo spazio (su questo tema si veda quest’altro post) . L’etica ha a che fare con lo spazio. In particolare, con lo spazio umano, in quanto è nell’etimo stesso del termine “etica” il riferimento al luogo e allo spazio. Masullo (2006) ci ricorda che l’eticità è espressa da Aristotele non in termini di “abitudine” o di “costume” (il plurale di ἔθος), bensì dal plurale di “dimora” (ἦθος): “La virtù etica nasce dall’abitudine, donde ha tratto il nome, mediante una piccola modificazione di questa parola” (Aristotele, 1999, II, 1103a). Ne segue che l’ἦθος è il luogo proprio dell’uomo, il piano strutturale entro cui l’uomo dimora, agisce, compie azioni, interagisce con altri individui, insomma, in cui pienamente, autenticamente abita il mondo. Dunque, etica è il modo in cui l’essere umano abita il mondo, quindi l’abitabilità del mondo-ambiente e le abitudini umane di abitarlo, che formano tradizioni, usi e costumi, cioè il suo abito, e rendono uno spazio-ambiente abituale il suo habitat. Ora, questa ridefinizione del concetto di “etica” conduce Masullo a delineare un paradosso, in quanto l’etica “è la cura di collocare l’uomo nella sua “dimora”. La “dimora” propria dell’uomo è la dimora del nomade, non una sede abituale e stabile, non un luogo fisso, ma lo spazio, tutto lo spazio che il suo cammino è capace di esplorare” (Masullo, 2006, p. 36). O, come scriveva Heidegger, «in conformità al significato fondamentale della parola ἦθος, il termina “etica” vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo» (Heidegger, 1947, p. 93).
L’ossimoro dell’essere umano, che si compie come eticità nello spazio, come dimora, come casa, e che, tuttavia, non li abita, non li occupa stabilmente, in quanto ontologicamente nomade, dà conto del carattere contingente dell’esistenza umana, e di un abitare che è caduco, transeunte, a volte temporaneo: l’abitare è passeggero e l’essere umano è un passeggero dell’abitare. Ma è proprio a partire da qui che l’etica trascende se stessa e il suo essere luogo-non luogo, letteralmente utopia, per divenire abito e costume, e perfino oltre, ratificandosi in norma ed istituto, stabilizzandosi così in ripetizioni, che divengono fondamenta di dimore, case, villaggi, città, nazioni. Ma prima di ogni possibile spazio esterno, lo spazio è misurato col mio corpo, lo spazio è il mio corpo:
Il corpo nel quale vivo infuso, recluso, mi rende inesorabilmente un personaggio spaziale. Mi colloca in un determinato luogo e mi esclude da tutti gli altri. Non mi permette di essere ubiquo. In ogni istante mi inchioda in un posto e mi separa dal resto. […] Il luogo in cui mi trovo lo chiamo qui (aquí) – e lo stesso fonema spagnolo, con il suo accento acuto e il suo improvviso cadere in due sole sillabe […] mostra meravigliosamente lo scioccante destino per il quale sono inchiodato esattamente… qui (aquí). Ciò comporta, automaticamente, qualcosa di nuovo e di fondamentale per la struttura del mondo. Io posso sì cambiare di luogo, ma in qualsiasi luogo mi trovi, quello sarà sempre il mio “qui”. Di conseguenza qui ed io, io e qui, siamo inseparabili per tutta la vita. Per cui il mondo, con tutte le cose che contiene, costretto ad essere per me dal qui, diventa di conseguenza una prospettiva – ossia le sue cose potrebbero essere vicine o lontane dal mio qui, alla sinistra o alla destra del mio qui, sopra o sotto il mio qui (Ortega y Gasset, 1949, pp. 78-9).
Heidegger dedica un’intera sezione del capitolo 3 di Essere e tempo alla spazialità: lo spazio-ambiente in Heidegger è la radice di ogni utilizzabilità, cioè di ogni possibile prendersi cura degli enti del mondo, su cui si basa il commercio col mondo. Lo spazio si configura attraverso la prossimità, il dis-allontanamento, e l’orientamento-direttivo, cioè come specifica condizione della mondanità dell’Esserci che, in quanto essere-nel-mondo, è spaziale: “Lo spazio può esser compreso solo in riferimento al mondo. […] La spazialità è scopribile soltanto sul fondamento del mondo, sicché lo spazio viene a con-costituire il mondo” (Heidegger, 1927, p. 147).
Lo spazio è sempre prospettiva perché introduce le categorie del vicino e del lontano e tali distanze non sono mai soltanto fisiche. Ciò che desidero è lontano, ma questa è una distanza sentimentale, non geometrica. La distanza, l’assenza, la nostalgia, il dolore non misurano mai spazi geometrici, ma spazi esistenziali. La riduzione progressiva della distanza, quella che Ortega (1954) recupera tramite il termine tedesco Weltverkehr, il dis-allontanamento heideggeriano, è l’inizio della globalizzazione, dello spazio globale: ma siamo sicuri che lo spazio si sia ridotto? Siamo sicuri che le distanze si siano accorciate? Prendere un aereo e trovarsi in poche ore dall’altra parte del pianeta sembrerebbe far pensare questo. Merci e prodotti, una volta pensati per il consumo locale, diventano beni planetari. Treni merci, navi mercantili piene di container, aerei cargo, autotreni rendono lo spazio un unico “villaggio globale”, secondo la fortunata espressione di McLuhan (1967).
In realtà, la velocità dei trasporti ha dilatato lo spazio, non lo ha accorciato: adesso è possibile ordinare un prodotto proveniente da una nazione lontana, mangiare del cibo esotico a domicilio, guardare notizie e avvenimenti sportivi a distanza. Possiamo telefonare, chattare, perfino fare lezione a distanza. Lo spazio non si è ridotto; al contrario, si è dilatato – da Cesare che va in Gallia a Cristoforo Colombo che salpa da Palos, fino a mandare robot su Marte. È aumentata la distanza perché possiamo coprirla facilmente e velocemente. Abitiamo fuori città, più lontano dal luogo di lavoro. La gita fuori porta è adesso un weekend in un’altra nazione da raggiungere in aereo. La digitalizzazione ha amplificato la distanza, perché ha creato l’illusione del suo annullamento. La pandemia l’ha resa istituzionale. Ma come lo spazio, così la distanza non è mai solo distanza fisica: ciò che è distante è ciò che dista, e distare è da dis e stare, cioè ciò che non sta, che sta separato, disgiunto.
La possibilità tecnica permette la distanza e l’aumento delle distanze: lo spazio si dilata e le distanze aumentano. Abbiamo più contatti su internet, chattiamo con più amici, seguiamo più corsi online, facciamo shopping online: ma è tutto un fare a distanza, mediato da immagini, piattaforme web e social, software, portali, dispositivi digitali. Lo spazio globale è uno spazio disgiunto, distante, guardato in TV o sul web, mentre lo spazio locale è quello in cui io e il mio corpo, insieme all’io e al corpo degli altri siamo-in-relazione e ci muoviamo. Nell’esperienza pervasiva dello spazio globale lo spazio locale finisce per perdere interesse: è una realtà meno costruita, perciò meno sofisticata, meno attraente.
Il bambino, il nativo digitale, cresce in questo spazio globale che esperisce mediante dispositivi e schermi: qualunque spazio locale, quello del cortile, del marciapiede, del pianerottolo in cui si spendevano interi pomeriggi, forse intere infanzie, svanisce. Le relazioni sono vissute in modo mediato, schermato, amplificando il senso della sicurezza e dell’isolamento. Anzi, si alimenta l’idea che l’isolamento permette sicurezza e protezione. E l’isolamento è garantito dalla mediazione della schermatura (di una TV prima, di un tablet oggi) ed è possibile solo se ci si trova a distanza (se mi trovo in presenza, senza distanza, non ho bisogno di alcun dispositivo, se non il mio corpo). Una volta le finestre, oggi gli schermi sono le armature per guardare il mondo a distanza, in sicurezza: e spesso parliamo di “distanza di sicurezza” quando guidiamo un’automobile o quando un virus ci impone un distanziamento.
La società dello spettacolo, basata sulla tecnica, cioè sulla produzione e sul consumo, rafforzata dalla digitalizzazione, impone la distanza: attraverso la distanza è necessario avvalersi di immagini pre-selezionate e dispositivi conformati. Grazie alla distanza c’è un unico modo di comunicare con tutti, per tutti. Piattaforme, apps, software conformano, delineano un unico modo di interagire col mondo, con gli altri. La distanza garantisce uniformità, omologazione, conformismo. La rappresentazione del mondo è fornita in confezioni uguali per tutti. L’omologazione permette alla produzione tecnica di dominare il mondo: se tutto è omologato, ovunque potrò vendere e distribuire il mio prodotto. I gusti, le abitudini, le mode, perfino speranze, sogni e desideri saranno uguali, dal Giappone alla California. L’idea di un mondo identico ovunque, di una sola realtà, si fa strada. E si fa strada più agevolmente là dove c’è distanza.
Riferimenti
• Aristotele. 1999. Etica Nicomachea. Roma-Bari: Laterza
• Heidegger, Martin. 1927. Sein und Zeit, in Heidegger M., Gesamtausgabe, vol. 2. Frankfurt: Klostermann, 1976
• Heidegger, Martin. 1947. Brief Über den Humanismus, in Heidegger M., Gesamtausgabe, vol. 9. Frankfurt: Klostermann, 1976
• Masullo, Aldo. 2006. Filosofia morale. Roma: Editori Riuniti
• McLuhan, Marshall. 1967. McLuhan: Hot & Cool. New York: Signet
• Ortega y Gasset, José. 1949. El hombre y la gente. Curso de 1949-1950, in Id., Obras Completas, Tomo X. Madrid: Taurus, 2012
• Ortega y Gasset, José. 1954. El hombre y la medida de la Tierra, in Id., Obras Completas, Tomo X. Madrid: Taurus, 2012
Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.