L’etica della pietà come amore puro: un salto da Schopenhauer a De André

Nelle opere del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer possiamo osservare due volti dell’amore. L’eros, visto come forza passionale intensa ma illusoria, dietro cui si nasconde il “freddo genio della specie”, e l’amore autentico che coincide con la pietà: “Ogni puro e sincero amore è pietà” (Schopenhauer, 2015, p. 409).

In modo simile, il cantautore italiano Fabrizio De André ha lasciato intendere dai testi delle sue canzoni una concezione dell’amore che sembra riecheggiare, in qualche modo, quella di Schopenhauer. Da un Amore che vieni, amore che vai, effimero, leggero, spregiudicato, a tratti edonistico, si passa a un sentimento posato, puro, solidale: “Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”. 

M. Abramovic, Anima Mundi (1983)

Due linee di pensiero che, seppur partendo da spunti certamente diversi, arrivano alla medesima considerazione: l’amore puro coincide con la pietà. Allora viene da chiedersi, cosa si intende precisamente per pietà? Per rispondere a questa domanda proviamo a lasciar parlare direttamente il filosofo e il cantautore.

La pietà come amore puro

Abbiamo veduto come dall’oltrepassamento del principii individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel maggiore la bontà vera e propria dell’animo, la quale ci si mostrò come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove quest’amore si fa perfetto, rende l’individuo estraneo e il suo destino affatto pari al nostro (Schopenhauer, 2015, p. 407-9).  

In altre parole, per Schopenhauer la pietà può essere intesa come una vittoria sull’egoismo individuale. Non a caso, il Filosofo pone l’etica della pietà come una delle tre vie della liberazione dal dolore. Pietà è quel sentimento di com-passione, di com-partecipazione, di affettuosa sincera solidarietà nei confronti dell’altrui dolore.

Nella sua concezione filosofica, infatti, la radice noumenica dell’uomo — così come di tutti gli enti esistenti — è la volontà di vivere. Volere, tuttavia, significa desiderare e desiderare, a sua volta, significa essere in uno stato di tensione per ciò di cui si è mancanti (si veda su questo punto, Ti amo ma non ti desidero). In definitiva, dunque, desiderare è soffrire, provare dolore.

Secondo il pessimismo cosmico schopenhaueriano, tutto soffre. Nella sua declinazione più elevata, la pietà consiste proprio nel riuscire ad assumere su di sé il dolore cosmico di tutti gli esseri, del presente e del passato. Questo tipo di sentimento coincide con l’agápe, l’amore autentico e disinteressato.

L’eros, effimero e illusorio

Alla pietà come amore puro fa da contraltare quell’amore passionale “capace di introdurre le sue letterine amorose e le ciocche dei capelli nei portafogli ministeriali […] priva di coscienza l’onesto e rende traditore il fedele” (Abbagnano, 2007, p. 12). Questo tipo di amore, per quanto possa mostrarsi “etereo”, si basa esclusivamente sull’“istinto sessuale, anzi è in tutto e per tutto soltanto un impulso sessuale determinato, specializzato in modo prossimo e rigorosamente individualizzato” (Schopenhauer, 1971, p. 653).

Cosí stando le cose, ogni innamorato, una volta ottenuto finalmente il piacere, proverà una strana delusione e si stupirà che quel che aveva desiderato con cosí tanto ardore non gli abbia dato niente di piú di qualunque altro appagamento sessuale […] L’appagamento, […] torna propriamente a vantaggio solo della specie. (Schopenhauer, 2013, p. 691).

A. Masson, Metamorfosi degli amanti (1939)

In breve, dunque, per Schopenhauer l’amore altro non è che “due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano ed una terza infelicità che si prepara” (Abbagnano, 2007, p. 13).  A questa dinamica, De André cerca di sfuggire, contravvenendo non solo al “genio della specie”, ma in primis alla morale cristiana. “Non commettere atti che non siano puri, cioè non disperdere il seme. Feconda una donna ogni volta che l’ami, così sarai uomo di fede. Poi la voglia svanisce e il figlio rimane. E tanti ne uccide la fame. Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore, ma non ho creato dolore” (Il testamento di Tito).

Per De André la passione dell’eros fa ardere di un desiderio inappagabile che spinge gli amanti a chiedersi “un bacio e volerne altri cento”. Questo stesso desiderio può anche condurci ad andare erranti da un amore all’altro, a sentirsi dire da “occhi di un altro colore” sempre “le stesse parole d’amore”. Parole che “fra un mese, fra un anno, scordate le avrai. Amore che vieni, da me fuggirai”.

Bisogna, tuttavia, fare una dovuta precisazione. Dopo aver individuato l’illusione dell’amore, Schopenhauer incoraggia a non cedere alle lusinghe di questo eros generativo per perseguire piuttosto le tre vie che portano al nirvana, quell’oceano di pace che rappresenta la definitiva liberazione dal dolore. Dal canto suo, invece, De André prende sì atto dell’essenza effimera dell’amore edonistico, ma, accettandolo per quello che è, ne esula ed esalta il piacere. Lungi dallo scoraggiare dal piacere erotico, protagoniste di molte delle canzoni di De André sono proprio delle prostitute. Come Bocca di Rosa, quella donna che con il suo misto di amor sacro e amor profano, era riuscita a portare la primavera in un piccolo paesino.

“C’è chi l’amore lo fa per noia. Chi se lo sceglie per professione. Bocca di rosa né l’uno né l’altro. Lei lo faceva per passione” (Bocca di rosa).

Ma è appena nella strofa successiva che De André ritorna a prendere atto che la passione spesso porta a soddisfare le proprie voglie personali, senza pensare all’altro che ci sta dinnanzi. Ed ecco, l’eros in tutta la sua passionalità e ambiguità. “E l’amore ha l’amore come solo argomento e il tumulto del cielo ha sbagliato momento. Così fu quell’amore dal mancato finale. Così splendido e vero da potervi ingannare” (Dolcenera).

H. Toulouse-Lautrec, Il bacio a letto (1892-1893)

La pietà cristiana

Questa visione spregiudicata dell’eros, ingannevole e peccaminoso, non trova di certo una collocazione positiva nell’ambito della pia morale cristiana. Qui la pietà, come abito soprannaturale, rientra nel novero dei sette doni dello Spirito Santo. Pietà in senso cristiano è quella virtù che partecipa della giustizia e che ci spinge all’amore e al rispetto verso Dio e verso il prossimo.

Michelangelo, Pietà (1498-1499)

Parlando della pietà, non possiamo non fare accenno alla Pietas dei Romani. Questa era identificata con una divinità astratta, che racchiudeva in sé la disposizione d’animo di rispetto e devozione che ogni uomo doveva avere nei confronti di tutto ciò che era sentito come sacro (gli altri uomini, i genitori, gli dei). In altre parole, anche nel mondo classico la Pietas aveva a che fare, in qualche modo, con la sfera del sacro.

Tornando alla pietà cristiana, in un passo delle sue Confessiones, Agostino di Ippona racconta la pietà in un episodio di vita quotidiana. A proposito dell’usanza diffusa in Africa di portare sulle tombe dei santi vivande e vino annacquato, l’Ipponate racconta: “Ognuno beveva un piccolo sorso: vi ricercava infatti la pietà religiosa, non il piacere” (Agostino, 2015, p. 149).

Anche se la morale cristiana si è da sempre proclamata “maestra di pietà”, nel corso della storia non sono mancate contraddizioni. Basti pensare al trattamento riservato — a partire dal IV sec. d.C., con il trionfo del Cristianesimo — a coloro che venivano considerati pagani (si veda per approfondire questo punto Le persecuzioni contro i pagani), o ai tanti roghi, alle torture impietose che hanno scandito soprattutto gli ultimi secoli del Basso Medioevo e i primi dell’età moderna.

Questi episodi di “pietosa impietosità cristiana” non sono sfuggiti a De André. A proposito di un blasfemo arrestato, il cantautore scrive: “Non avevano leggi per punire un blasfemo. Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte. Mi cercarono l’anima a forza di botte”.  De André canta anche di Michè, suicida per amore, che “domani alle tre, nella fossa comune cadrà. Senza il prete e la messa perché d’un suicida, non hanno pietà” (La ballata del Michè).

Al di là dell’amore puro

In altre parole, l’idea dell’amore puro sembrerebbe alquanto idealistica. E se l’amore in quanto sentimento del volubile essere umano non avesse assoluti? E se tutti i volti dell’amore, in tutte le loro sfumature, fossero solo degli attimi contingenti inseriti nell’eternità del tempo? Soprattutto: perché sottolineare la freddezza della specie?

F. Kahlo, Abrazo amoroso (1949)

L’amore? Non so. Se include tutto, anche le contraddizioni e i superamenti di se stessi, le aberrazioni e l’indicibile, allora sì, vada per l’amore. Altrimenti, no. (F. Kahlo)

Homo sapiens è esso stesso specie e natura. Piuttosto che liberarci dal dolore, allora, forse dovremmo accettarlo come componente inevitabile della vita. In fondo, estirpare il dolore significa estirpare la vita, nella sua essenza più piena e completa. Così, forse, potremmo riuscire a guardare con pietas a tutta la materia vivente. Compreso l’uomo in quanto corpo, pieno di istinti e passioni e così facile a cedere alle lusinghe di eros.

…una prospettiva naturalistica

Al di là di ogni egoismo, di ogni morale contraria ai piaceri mondani, di ogni “antropocentrismo narcisistico o predatorio” e di ogni superomistico individualismo. Da lì, potremmo provare a coltivare “un’antropologia dell’eco-appartenenza” per giungere a un’“umana ed epatica sensibilità”.

Biophilia – che nasce dal sentirsi affiliati al resto della natura vivente in relazione alla quale si definisce anche alla nostra identità (Franceschelli, 2007, pp. 165-6).

Forse così le dinamiche dell’eros e della pietà potrebbero, per qualche momento, essere conciliate?

Riferimenti bibliografici

  • Abbagnano, Nicola, Fornero, Giovanni. 2007. Il nuovo protagonisti e testi della filosofia. Varese: Paravia
  • Agostino. 2015. Le confessioni (397-398). Roma: Newton Compton editori
  • Franceschelli, Orlando. 2007. La natura dopo Darwin. Roma: Donzelli editori
  • Schopenhauer, Arthur. 2013. Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione» (1819). Torino: Einaudi
  • Schopenhauer, Arthur. 2015. Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). Roma: Newton Compton editori
Author profile

Laureata in Scienze filosofiche presso l'Università di Catania con una tesi sul pensiero di Ortega y Gasset dal titolo "L'amore è spaziale". La scrittura e la lettura sono due dei miei luoghi preferiti. Mi incuriosisce tutto ciò che riflette sul mondo di oggi sotto una luce filosofica e, in particolare, "con mente etica": etica-mente.

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