Il problema della corporeità attraversa la filosofia sin dagli albori: di volta in volta, il corpo è stato affermato, esaltato, rinnegato, punito. Tradizioni filosofiche e credenze religiose ne hanno fatto modello scultoreo, dalle forme scolpite – nel marmo e nei muscoli – protagonista di un esercizio fisico che prevedeva ora il lancio del disco, ora il lancio del cilicio. Corpi danzanti, sudati, o sofferenti, carichi di peccato – appunto, carnale – da raffigurare nel piacere o nel dolore, nella seduzione o nella fustigazione. Questo è esattamente il punto: per migliaia di anni il corpo umano è stato associato al piacere e al dolore. La società telematica segna una svolta: il corpo smette di essere fonte di piacere o causa di dolore; del corpo non sappiamo più che farcene.
Uno dei filosofi che più di altri è riuscito nelle sue analisi ad anticipare temi e problemi della società contemporanea, Vilém Flusser, aveva dedicato gli ultimi capitoli del suo testo del 1985, Ins Universum Der technischen Bilder (riferimenti dall’edizione italiana Immagini, Fazi 2009), alla questione del corpo. La società telematica, fatta di connessioni di cavi visibili e invisibili, di nodi e portali, realizza il paradigma della rete neurale: sinapsi che collegano assoni e dendriti posti davanti ad uno schermo, il cui unico movimento corporeo è rappresentato dai polpastrelli che premono su tasti e display.
In effetti, Flusser dedica un intero capitolo e molto spazio ai tasti: dispositivi che permettono di trasformare l’infinitamente piccolo di un pixel, di un bit, in un elemento visibile – una parola, un’immagine – su una scala infinitamente più grande: il tasto con cui trasformo gli atomi di un ordigno in un’esplosione nucleare che cambia il pianeta. I tasti sono dappertutto: interruttori, pulsanti, bottoni – fisici o virtuali –, attuatori, click o tap.
I tasti possono essere singoli o possono combinarsi insieme e formare tastiere e apparati complessi. Tutti i tasti, una volta premuti, non solo funzionano: il pulsante che premo sulla mia fotocamera, il tap sullo schermo dell’iPhone per inviare un messaggio, l’interruttore con cui accendo la luce o il fuoco nel fornello in casa. Di più: una volta premuti i tasti possono avviare processi automatici, in cui altre funzioni si attivano e procedono indipendentemente da noi: così accade quando premo il pulsante per accendere il computer o avviare l’automobile.
Se controllo il mondo attraverso un piccolo pulsante, che cosa me ne faccio di tutto il resto del corpo intorno al polpastrello? Se la realtà che conosco è il risultato di sinapsi telematiche, attivate attraverso pressioni su tastiere e click sul mouse, mentre me ne sto seduto davanti al computer o con lo smartphone in mano, che cosa me ne faccio del corpo? Inizio a sospettare che il corpo non solo sia superfluo, ma perfino peggio: sia un impedimento. Perché, mentre me ne sto a scrivere questo post da pubblicare sul blog, verifico che il corpo ha urgenze: richiede la mia attenzione, inviando segnali di fame, di sete, di stanchezza e invitandomi a fare una visita in bagno. Il corpo, con i suoi segnali, con le sue esigenze fisiologiche, mi distrae, mi interrompe, spezza il ritmo efficiente della produzione incessante e veloce del fluire telematico: immagini, post, reels. Realtà.
Però Flusser ricorda che è all’opera non una negazione della corporeità, ma una sua riduzione: la miniaturizzazione che supporta la società tecnica digitale – il microchip – seduce il soggetto telematico, che vorrebbe poter miniaturizzare anche il proprio sé, per poter diventare parte pienamente integrante della rete telematica: se potesse, vorrebbe essere un bit, per poter essere ovunque e subito. Il mito dell’ubiquità non è un sogno metafisico, ma tremendamente fisico, materiale, hardware. Ma il fisico – il corpo – glielo impedisce.
Il corpo negato, ridotto, non è annientato: è ancora lì, ineliminabile. Ma inizia ad essere per il soggetto telematico oggetto, e oggetto misterioso, non più solo una res extensa. Si sgretola quel legame, che Ortega y Gasset aveva messo così bene in evidenza, tra corpo e anima: il corpo cessa di essere campo di espressività dell’intimità. Così, da un lato, l’intimità, non sapendo più esprimersi, finisce per non esprimersi più; dall’altro, il corpo si atrofizza, si mineralizza, come la pianta senza più radici, né più linfa: corpi secchi, appassiti, inermi. Il corpo umano termina di essere Leib e diventa solo Körper, corpo-animale, corpo-oggetto. Questo il senso di alterazione, in Ortega y Gasset, o, più in generale, di alienazione.
L’offesa, come nel bodyshaming, la violenza, come nell’harassment, la mercificazione del corpo femminile, il corpo colpito, maltrattato, percosso, pugnalato, bruciato, smembrato, occultato, come nei peggiori crimini della storia, che adesso sono quotidianità. Se siamo solo corpo, se il corpo non rivela più nulla dell’anima, allora il corpo diventa un minerale, un sasso da prendere a calci per strada mentre camminiamo annoiati senza meta. Il corpo diventa feticcio: e non solo nel senso datogli da Jeffrey Dahmer, ma in tutti i possibili sensi. Il corpo diventa soprammobile, da mostrare, o trofeo, da esibire. Il culto del corpo, il culto della salute mal celano la mineralizzazione in atto della corporeità.
Qui non importa capire se in fondo bodybuilding e bodyshaming non siano altro che due facce della stessa medaglia. Qui conta ciò che accade al corpo: la nudità esposta di corpi mineralizzati – come avviene nella pornografia – non ha più nulla da dirci sull’intimità. Perciò non crea più alcun imbarazzo: la nudità è imbarazzante finché il corpo nudo rimanda al suo intus. Nel momento in cui il corpo è involucro vuoto, esso non rimanda più a nulla, non è più simbolo, letteralmente non significa più niente. Come ricordava Ortega y Gasset, le epoche in cui i corpi sono più coperti – come nel periodo dell’amor cortese – sono quelle di maggiore intimità; le epoche che esibiscono corpi nudi, al contrario, rivelano lo scarso interesse per l’intimità. Se il corpo non è più campo di espressività della soggettività, non c’è più alcun motivo di coprirlo: esso non rivelerà nulla. Anche la sessualità, divenuta telematica, usa solo i corpi, velocemente, superficialmente, infischiandosene dell’intimità. Il sesso solo corporeo è quanto di più lontano ci sia dall’intimità.
In una società cerebralizzata il corpo diventa un problema. Così spieghiamo la centralità degli ambiti sociali che si occupano del corpo: l’economia – a partire dalla produzione, distribuzione e consumo di cibo, di cui il corpo ha bisogno –, la sanità – intesa spesso come salutismo, come accanimento sul corpo –, la sicurezza – come limitazione fisica dei corpi. Tutti e tre gli ambiti meriterebbero un dovuto approfondimento (che in parte ho svolto altrove relativamente all’etica del cibo), ma qui concludo rivolgendomi solo alla salute – ma come scriveva Flusser, “l’economia e la medicina sono fondamentalmente sinonimi” (p. 200): malattie, infermità, pandemie diventano i problemi centrali della società telematica. Il corpo malato è un corpo che impedisce la regolare efficienza produttiva al soggetto nel proprio posto di lavoro sinaptico. Perciò siamo ossessionati dal corpo sano: mens sana in corpore sano diventa il mantra della società telematica. Guai ad ammalarsi.
Il corpo viene nutrito, accudito, allenato, monitorato, e tra diete salutari, check-up medici, visite di controllo specialistiche, analisi del sangue, smette di essere un problema. Facciamo di tutto perché il corpo non ci crei problemi. La società telematica è anestetizzante: prescrive antibiotici, antipiretici, antinfiammatori, antidolorifici. La società telematica è analgesica: non prevede il dolore, non sa che farsene della sofferenza. Narcotizzata sotto l’effetto di droghe, la cui più chiara distinzione è quella di essere legali o illegali, invoca il controllo del corpo ad ogni livello.
La società telematica, ripiegata su se stessa dall’incessante fluire di dati e immagini, in preda alla duplice dipendenza da immagini e pillole, non avrà più posto per il malato, per l’emarginato, per il sofferente. L’efficienza digitale della produzione telematica non lo permette. L’anziano diventa superfluo, lo si accompagna ipocritamente, analgesicamente, alla morte. Ma “i corpi dei mammiferi soffrono e muoiono. E questa riflessione mostra il pericolo nel quale incorriamo quando si parla di economia: dimenticarsi a volte la sofferenza e la morte” (p. 200). La società telematica, ponendosi come società economico-medica, ha lo scopo di differire la morte, allungando la vita produttiva, analgesicamente, dolcemente – eutanasia. La coscienza digitale, come mind upload, è tutto sommato un desiderio seducente.
Non si tratta solo della “coscienza infelice”, della fonte di ogni creatività artistica, di ogni dissenso: si tratta del Mitsein, del riconoscimento della co-esistenzialità: perché il dolore non è comunicabile, non è trasmissibile, e resta l’usbergo sicuro di ogni intimità nascosta. Non resta che il dolore per tentare di cogliere l’individualità, l’unicità dell’altro. Il dolore, il suo dolore che ci sforziamo di sentire – empatia – perché non lo proviamo, non lo comprendiamo. Il dolore come possibilità di compassione.
Una società che non conosca più sofferenza, né dolore, è una società che non sa più essere felice. In effetti, una società analgesica, anestetizzata, è una società che non proverà dolore; e, tra gli effetti collaterali comuni di questa somministrazione terapeutica, se ne presenta uno con chiari sintomi: l’anedonia, cioè l’incapacità di provare il piacere. Una società anestetizzata lo è tanto contro il dolore quanto contro il piacere. Una società di corpi che non soffrono più è una società di corpi che non sanno più amare.
Fondatore di Etica-mente. Ricercatore di Filosofia Morale presso l'Università di Catania. Direttore del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica e Chief Examiner per l'IBO. Si occupa di Etica Contemporanea, Etiche Applicate e Antropologia Filosofica.
2 Replies to “La società telematica analgesica: o del non saper più che farcene del corpo”