Marina Abramović: il corpo si fa arte, il corpo attraversa i muri

Alcuni artisti si esprimono con la pittura, altri attraverso la scultura, altri ancora attraverso il disegno. Marina Abramović si esprime attraverso il corpo. L’arte di Marina Abramović è il suo corpo durante la performance. In questo caso allora il corpo si fa arte.

Quello che fa l’artista è indirizzare l’azione del corpo in modo consueto o diverso dal consueto. Perché, anche qualora riproducesse il consueto, quel consueto rimanderebbe ad altro. A un significato che l’artista vuole trasmettere con la performance, o a un significato che non aveva affatto previsto e che viene attribuito dallo spettatore. Dunque, il corpo che si fa arte è un corpo che si fa altro.

Perché Marina Abramović fa performance?

Perché “i comunisti dovevano avere una determinazione capace di farli passare attraverso i muri” (Abramović, 2016, p. 22). Questa affermazione tratta dalla sua autobiografia potrebbe sembrare vaga, ma contiene la radice profonda del perché Abramović decise di esprimersi attraverso la performance art. L’artista serba, figlia di partigiani titini, fu estremamente influenzata dall’educazione rigida e inflessibile dei suoi genitori, Danica e Vojin. Da questi, infatti, imparò a considerare il corpo uno strumento di resistenza, capace di resistere allo sforzo, alla lotta, al dolore.

M. Abramović, Ulay, AAA-AAA (1978)

“Ogni parte del tuo corpo è connessa a segni diversi che ti consentono di capire che cosa sta succedendo dentro di te – a livello spirituale, ma anche fisico e mentale” (Abramović, 2016, p. 42). La giovane Marina si dedicò per qualche tempo alla pittura. Ma ben presto comprese che l’accadere è più importante di ciò che può essere contenuto nello spazio di una tela: “Il processo era più importante del risultato, così come la performance per me ha maggiore significato dell’oggetto” (p. 43). Cominciò così a guardare alla performance come a una forma d’arte più simile alla vita perché termina, finisce, non permane.

Ebbi un’illuminazione: perché dipingere? Perché limitarmi a due dimensioni, quando potevo fare arte con il fuoco, l’acqua, il corpo umano? Con qualunque cosa! Qualcosa era scattato nella mia mente: mi resi conto che essere artisti significava avere l’immensa libertà di lavorare con qualunque cosa, o con nulla […]. Era un’incredibile sensazione di libertà, soprattutto per chi veniva da una casa dove non c’era quasi libertà (p. 44).

M. Abramović, The Hero (2001-2008)

In tal senso, la performance art di Abramović è un tentativo di fare del corpo non solo uno strumento di resistenza, ma anche uno strumento di liberazione. È un tentativo di fare entrare nell’arte la vita stessa. Ma allora, che cos’è che distingue l’arte dalla vita ordinaria? Il frame. Perché nel frame della performance si verificano cose strane, straordinarie. Nel bene e nel male.

L’arte attraverso il corpo

Fu dopo Rhythm 10 che Marina ebbe la netta sensazione di avere trovato il proprio mezzo d’espressione. Questa sua prima performance consisteva nel riprodurre un gioco da osteria dei contadini jugoslavi, ovvero quello di colpire con un coltello gli spazi tra le dita di una mano allargate su un tavolo. Quando si manca il bersaglio ci si taglia, allora si deve bere. E più si beve più le probabilità di ferirsi aumentano. Durante la performance il sangue dell’artista macchiava la carta bianca in modo impressionate, mentre il pubblico guardava in silenzio.

M. Abramović, Rhythm 10, Villa Borghese, Roma (1973)

Scrive Abramović: “Era come se un flusso elettrico scorresse nel mio corpo, e il pubblico e io fossimo diventai una cosa sola. Un unico organismo” (p. 75). E ancora:

Ascoltando l’applauso entusiasta del pubblico, capii di essere riuscita a ottenere qualcosa che non aveva precedenti […]. Avevo fatto esperienza di una libertà assoluta: avevo sentito che il mio corpo era senza limiti e confini; che il dolore non aveva importanza, nulla ne aveva. […] Fu in quel momento che seppi di aver trovato il mio medium (p. 76).

Tra le più note ed estreme che potremmo citare c’è Rhythm 0. La performance potrebbe essere ben sintetizzata dall’invito che lo Studio Morra di Napoli rivolse a Marina: “Vieni qui e fa’ quello che vuoi” (p. 83). Durante le sei ore della performance, infatti, Marina rimase immobile davanti a un tavolo con settantadue oggetti (tra cui spilli, un coltello, una pistola): i visitatori erano liberi di usarli su di lei a loro piacimento. A fine performance, scrive Abramović: “Ero in uno stato pietoso: mezza nuda, sanguinante, con i capelli bagnati. […] In quel momento mi resi conto che il pubblico può ucciderti” (pp. 86-87).

M. Abramović, Rhythm 0, Studio Morra, Napoli (1975)

L’amore nella performance art

Una svolta artistica e al contempo esistenziale fu per Marina l’incontro con Ulay. Il loro amore diede vita a quella che l’artista definisce come una sorta di “personalità fusionale” (p. 110). Tra le performance che maggiormente simbolizzano il loro amore possiamo citare Relation in space: Ulay e Marina nudi si scontrano l’uno contro l’altro, e dei microfoni enfatizzano “il rumore della carne che sbatteva sulla carne” (p.105).

Ulay, M. Abramović, Relation in Space, XXXVII Esposizione internazionale d’arte, Giudecca, Venezia (1976)

Ma perché dare così importanza alla carne? Perché, come forse direbbe Ortega y Gasset, è proprio la carne a mostrare la differenza tra il corpo di uomo e quello di un minerale. Il corpo umano carnale è il simbolo di una psyché che si dimena e che preme dall’interno per manifestarsi all’esterno. In altre parole, la corporeità stessa vuole trascendere la materia, simbolizzando lo spirito che è dentro di lei.

M. Abramović, Ulay, Point of contact (1980)

Iconica è anche Rest Energy, performance in cui Marina regge un grosso arco, mentre Ulay ne tende la corda. “La rappresentazione più estrema possibile della fiducia” (p. 137); un simbolo di come l’amore possa essere affidamento e, al contempo, fardello di una tensione insopportabile, dolorosa e potenzialmente letale.

Il corpo attraversa i muri

Nelle performance di Abramović il corpo non è solo l’“attraverso”, ovvero il mezzo per fare arte, ma il corpo è ciò che “attraversa”, ciò che va oltre. Oltre se stesso, oltre i muri, oltre l’arte stessa. Scrive infatti: “Se l’energia poteva trascendere il tempo mi chiesi, perché non poteva farlo il corpo?” (p. 269). In questo senso, il corpo dell’artista è un corpo che vuole superare la sua nudità, la sua vulnerabilità. Il suo nudo corpo non è la nuda vita di cui parla Arendt, perché si copre dei significati di cui la performance lo riveste.

In generale, l’arte è uno degli ambiti principali della relazione umana con la spiritualità. È forma che appare davanti all’uomo e pretende di diventare opera per mezzo dell’uomo. Nel caso di Abramović però è forma dell’uomo che diventa opera direttamente, senza mediazione di altro supporto che non sia la forma dell’uomo stesso. A tal proposito è interessante l’idea che Plessener ha della danza che considera una particolare forma d’arte realizzata direttamente con i movimenti ritmici del corpo.

Ma è proprio il fatto di avere un corpo a vincolarci a un altro elemento distintivo della nostra condizione umana: il dolore (per approfondire si veda anche La società telematica analgesica: o del non saper più che farcene del corpo). Dunque, dire che l’arte di Abramović è corpo che si fa arte, equivale a dire che è dolore che si fa arte. Questo è evidente non solo in performance in cui il dolore è indotto quasi volutamente come in Rhythm 10 o in Thomas Lips (quella in cui Marina si incide una stella a cinque punte sull’addome), ma anche in performance come The artist is present dove il corpo è semplicemente presente.

M. Abramović, Thomas Lips, Galerie Krinzinger, Innsbruck (1975)

The artist is present

The artist is present fu una performance di portata straordinaria, durata 736 ore e mezza e che richiamò al MoMA di New York (2010) 850 mila persone, 17 mila solo l’ultimo giorno. Questo evidenzia come il corpo di quest’artista riesca a smuovere non solo interiormente, ma anche fisicamente le persone.

“Ci saremmo guardati negli occhi” (p. 344): in questo consisteva la performance. Abramović, dunque, lascia che siano i particolari, le microespressioni del volto, la postura, il teatro dello sguardo – come lo definisce Ortega y Gasset – a realizzare una performance che ha un unico vero protagonista: l’interiorità umana. Qui è evidente come l’interiorità delle persone, anche quelle più comuni, si faccia arte attraverso l’espressione dei corpi carnali.

Infatti, sedendoti di fronte l’artista, seduta immobile su una semplice sedia, “non potevi andare da nessuna parte se non dentro di te. E il punto era questo. La gente trabocca di dolore e tutti cerchiamo di ricacciarlo giù. E se reprimi per troppo tempo il dolore emotivo questo diventa dolore fisico” (p. 345).

M. Anelli, Portraits in the presence of Marina Abramovic from “The Artist is Present”, MoMA, New York (2010)

Alla fine della prima giornata, dopo che cinquanta persone si erano sedute portando davanti a Marina tutto il loro dolore, arrivò Ulay:

Oltre l’arte stessa

Con la sua arte, dunque con il suo corpo, Marina Abramović dimostra che “il corpo è una macchina di precisione, e una macchina può essere programmata perché faccia certe cose. Anche se non lo facciamo quasi mai” (p. 349). Dimostra come il corpo possa andare oltre, sopportando più dolore di quanto un corpo umano possa esserne capace. E mostra anche come la performance art sia in grado di andare oltre l’arte stessa: essa non solo crea emozioni e significati, ma crea anche connessioni con chi mi sta davanti, sottolineando come la vita dell’uomo sia solitudine, ma al contempo relazione.

Allora potremmo dire che Abramović fa arte col corpo perché “l’arte che insegue valori esclusivamente estetici è incompleta” (p. 350). L’arte ha bisogno di corpi perché la vita umana in primis ha bisogno di corpi.

Riferimenti bibliografici

  • Abramović M. (2016), Attraversare i muri. Un’autobiografia (Walk Through Walls. A Memoir), trad. it. di A. Pezzotta, Bompiani, Milano, 2016.
  • Arendt H. (1951), Le origini del totalitarismo (The Origins of Totalitarianism), trad. it. A. Guadagnin, Einaudi, 2017.
  • Ortega y Gasset (1925), Sobre la expresión, fenómeno cósmico, in Id., Obras completas, Tomo II, Taurus, Madrid, 2017, pp. 680-695.
  • Pansera M. T. (2019), La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica, Inschibboleth, Sennori
Author profile

Laureata in Scienze filosofiche presso l'Università di Catania con una tesi sul pensiero di Ortega y Gasset dal titolo "L'amore è spaziale". La scrittura e la lettura sono due dei miei luoghi preferiti. Mi incuriosisce tutto ciò che riflette sul mondo di oggi sotto una luce filosofica e, in particolare, "con mente etica": etica-mente.

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