La segnal-etica della contraddizione

A partire dal IV secolo a.C. l’imperituro lavoro di Aristotele ha dato vita al principio di non-contraddizione, che ha rappresentato il perno della logica classica nella filosofia occidentale. Secondo tale principio un oggetto non può essere e non essere tale nello stesso momento; in altri termini, un bicchiere d’acqua non può non essere considerato altra cosa se non un bicchiere d’acqua nel medesimo arco temporale, pena la sua validità logica. Un assunto apparentemente chiaro ed evidente, se ci muovessimo esclusivamente nel campo della rigidità e della calcolabilità razionale. Tuttavia anch’esso è stato oggetto di alterazioni.

Da lì a poco, infatti, il teologo e filosofo medievale Nicola Cusano divenne il padre della cosiddetta coincidentia oppositorum: l’uomo è un sistema risultante dalla coesistenza di ragione e intelletto. La ragione va a de-finire, categorizzare e costruire dei punti fissi astratti — i concetti — che non interagiscono fra loro e non si riconoscono. L’intelletto, poi, andrà ad unificare quegli stessi concetti contrastanti, che per la ragione sono risultati inconciliabili e opposti. È l’intervento dell’intelletto — dunque — che consente di conciliare quello che per la ragione sta all’opposto.

Un nuovo modo di approcciarsi all’istanza della molteplicità, quello di Cusano, tanto distante dal secolare principio di non-contraddizione che non vedeva alcuna possibile interazione fra opposti. Oggi domina la “setta aristotelica” che dichiara eretico parlare di coincidenza degli opposti.

“Una consuetudine radicata fa sì che gli uomini siano più pronti a sacrificare la propria vita che ad abbandonare un’abitudine concettuale” (Kurt Flash, 1992, p. 246).

Sì, quella di guardare ed interpretare la realtà con le lenti del tutto-uno-incontrovertibile è un’abitudine concettuale che non può mai trovare effettiva applicazione. Siamo nati dal caos, dal disordine, dall’indistinto —avrebbe detto Anassimandro — e siamo destinati a vivere un divenire intriso di molteplicità e differenza. Eraclito era già approdato a tale assunto, tanto che in uno dei suoi più celebri frammenti riporta:

 “Pòlemos [Guerra] è padre di tutte le cose”.  

È davvero incredibile come poche parole possano fungere da chiave di lettura valida per qualsiasi ambito dell’esistenza umana. Come si poteva annientare il capitalismo, secondo Marx, se non tramite una lotta di classe? Come potrebbe nascere una stella se eliminassimo l’interazione violenta di gas e polveri di diversa natura chimica? Cosa siamo noi, se non continuo conflitto tra conscio e inconscio?

G. Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato (1901)

Noi viviamo fra le contraddizioni, perché noi siamo contraddizione. E senza contraddizione non c’è vita. Piuttosto sospettare del “diverso”, dell’altro, di ciò che non ci è familiare costituirebbe una forma di paradosso, in quanto noi per primi siamo destinati a convivere sempre con un qualcosa di alter, di ignoto (si veda questo post in merito alla basilare compresenza del diverso). Oggi siamo quello che non eravamo ieri e domani scopriremo una nuova parte di ciò che non siamo mai stati.

Ed eccoci al punto centrale della segnal-etica delle contraddizioni: non è tanto il differente in sé a spaventare l’uomo, quanto il nuovo. Eppure ciò che ci rende contraddittori risiede proprio in quel tipico “lato nascosto” in noi stessi che scopriamo una volta che viviamo ed esperiamo il mondo. Cogliere la contraddizione, in ultima analisi, significa disvelare quel che è celato. Non a caso il termine verità, in greco si traduce con ἀλήθεια, ovvero scoprire ciò che è nascosto.

Hegel, all’inizio della Fenomenologia dello spirito scriveva che il vero è l’intero e non lasciava al di fuori di quest’assoluto nient’altro. Tuttavia assolutizzare la verità è un atteggiamento che mina alla base l’esistenza della diversità, della contraddizione. I totalitarismi non sono stati altro che l’evidente manifestazione di un Uno che si è imposto sui Tanti gradualmente alienatisi. Il mondo, invece, ha bisogno della controparte, della lotta, della differenza che mantenga vivo il fuoco della libertà e dell’ineffabile ricerca della verità.

Emblematico fu il momento in cui Gesù Cristo, sottoposto al processo, ribadì di essere l’unica via, verità e vita, e a tali parole, Ponzio Pilato rispose: “Che cos’è la verità?”. Questo è l’atteggiamento tipico di chi non accetta nessun sapere dogmatico, e che piuttosto si dispone sempre di fronte alle credenze in maniera critica. Credenze che altrimenti sarebbero destinate a tradursi in verità convenzionalmente riconosciute da tutti, dottrinarie ed autoritarie.

M. Chagall, Golgotha (1912)

Se la differenza si aliena di fronte all’Identità si incorre in quella forma di nichilismo che così confutava Nietzsche nella Critica del nichilismo:

“Il nichilismo subentra, in secondo luogo, quando si è postulata una totalità, una sistematizzazione in tutto l’accadere. […] E in conseguenza di questa credenza l’uomo ha un profondo sentimento della dipendenza da un tutto a lui immensamente superiore”.

Secondo il filosofo tedesco, dunque, fonte di nichilismo è anche la scoperta che l’immagine unitaria dell’essere alla quale il pensiero occidentale si è votato fin dai suoi esordi è qualcosa di illusorio. Non risulta più sostenibile l’idea di un principio atto a spiegare la profonda connessione delle cose all’interno del tutto. Nulla, insomma, ci assicura che l’universo da noi abitato sia un sistema coerente; il nostro è un universo molteplice nel quale non si danno e non si devono dare leggi universalmente applicabili. Il punto esemplificativo risiede poi nell’accettare che noi siamo identici a noi stessi e che questa unicità derivi dalla coesistenza di più parti, più lati nascosti, più differenze — o se più ci piace — più contraddizioni. Questo concetto è ben trattato da Heidegger quando afferma:

“Noi pensiamo l’essere in modo aderente alla cosa, solo se lo pensiamo nella differenza dell’ente, e quest’ultimo nella differenza dell’essere. Soltanto così la differenza balza agli occhi. Ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente”.

J. Mirò, Numeri e costellazioni innamorate di una donna (1941)

In altri termini, l’identità non è altro che la risultante della differenza fra essere ed ente che divengono e si implicano vicendevolmente nel tempo. Riportando tale principio all’individuo in sé, assumeremmo che un singolo uomo è una teca che ingloba corpo e mente, desiderio e razionalità, verità e inganno. Cos’è, dunque, se non quella stessa contraddizione che ci fa uomini a farci consapevoli del nostro limite? Laddove potremmo essere razionalità infinita si erge al confine l’istinto, e dal momento che per Salustio “nulla al mondo si dà di illimitato” (2000), non resta all’uomo che riconoscere e superare le antinomie della propria essenza.

Non resta che focalizzarsi su questa vita, viverla, non temere l’ignoto e aprirsi all’orizzonte del presente immanente. In un mondo che verte sull’immediatezza virtuale e non tangibile, la segnal-etica delle contraddizioni indica al primo passeggero di accogliere e far propri gli elementi contraddittori del proprio Io, per poi prepararsi al meglio ad una reale interazione con l’altro. Non si potrà mai avere familiarità con la propria persona, se prima non si riconosce il nostro connaturato pluralismo.

Riferimenti bibliografici:

  • Flash, Kurt. 1992. Introduzione alla filosofia medievale. Bologna: Piccola Biblioteca Einaudi
  • Heidegger, Martin. 2009. Identità e Differenza (1957). Milano: Adelphi
  • Nietzsche, Friedrich. 1979. Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, vol. VIII, tomo II. Milano: Adelphi
  • Salustio. 2000. Sugli dèi e il mondo. Milano: Adelphi
Author profile

Classe '99.
Ho conseguito la maturità classica nel 2018, ad Agrigento.
Dottoressa in Scienze Filosofiche presso l'Università di Catania; collaboro per Etica-mente.

Mi astengo dal giudizio, ma non dalla ricerca del sapere.

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