Il discorso sul tradurre si pone pienamente come questione centrale nel dibattito filosofico contemporaneo, in quanto aspetto costitutivo dell’esistenza e dell’esperienza umana. In un’epoca fortemente globalizzata, è proprio nell’ambito del linguaggio che emergono le questioni dell’identità, della differenza, della relazione con l’altro. La traduzione porta con sé non soltanto la domanda su come trasporre da una lingua a un’altra, da un codice linguistico a un altro, ma soprattutto su come “tradurre” noi stessi, l’esistenza e l’essere situati nel mondo, in un mondo ricco di differenze come di esperienze comuni. La problematica è antropologica e ontologica allo stesso tempo. Proiettandoci ab origine, Walter Benjamin individua la forma originaria della traduzione nel movimento di traduzione della lingua delle cose in quella degli uomini, del muto nel sonoro, di ciò che non ha nome nel nome. Dare un nome alle cose è stato il primo atto con il quale le cose sono state messe al mondo, cioè sono state inserite dentro un sistema di significati e di relazioni che si sono fatti weltanschauung infinite. La parola, nella sua prima scaturigine, è phonos, suono. Esiste, dunque, anche una fonosimbologia che è uno dei luoghi di smacco di ogni traduzione, evidente soprattutto nel lavoro di traduzione della poesia, dove rimane evasa la domanda se sia possibile in essa una lealtà che realizzi la maggior aderenza possibile alla struttura ritmica, al respiro, alla voce del poeta.
Il tema del rapporto tra le lingue ha meritato anche un mito tra i più antichi e più influenti della cultura occidentale: quello della Torre di Babele. La punizione divina contro la superbia dell’uomo, in una lettura più efficace è, piuttosto, salvezza dall’identico, da una verità monolitica che ci sottrae la ricchezza e molteplicità del mondo e ci priva della libertà di espressione e conoscenza. A rischio erano la dimensione dinamica e la funzione creatrice del phonos iniziale, perché è lì, nell’intraducibile, in ciò che non è mai riducibile a un’identità unica, che risiedono l’apertura al pluralismo dei significati del mondo e la libertà da ogni forma di totalitarismo. Per Wittgenstein «l’identità ha bisogno della differenza per emergere», dello sforzo traduttivo con la sua irriducibilità all’identico. La Torre di Babele è, allora, il simbolo della traduzione come operazione insieme necessaria e impossibile, segno, con Derrida, della necessità di decostruire ogni constructum. Proprio nel suo Des Tours de Babel, Derrida mette in rapporto il tema dell’intraducibile con il metodo della decostruzione. La traduzione porta con sé un “debito”, una différance, rispetto all’originale, ma tale differenza attraversa anche la propria lingua. Nell’interpretazione del mito di Babele proposta da Derrida, la legge della traduzione o la traduzione come legge è imposta da Dio che «dà ai semiti un doppio comando assoluto. Impone loro un double bind dicendo: traducetemi e, soprattutto, non traducetemi. Desidero che mi traduciate, ma non ne sarete mai capaci». E ciò vale anche per ogni nome proprio, il quale chiede che venga rispettata la sua unicità al di sopra di ogni lingua e, allo stesso tempo, chiede di essere tradotto, compreso e preservato nel linguaggio universale.
L’antinomia derridiana può poi essere così riformulata: Tutto è traducibile (sì ma) Tutto è intraducibile. E anche qui ogni ramo dell’antinomia preso singolarmente porta all’autoannullarsi della traduzione, perché la traducibilità massima corrisponderebbe a un impoverimento per univocità. Siamo pluralità di mondi ontologici e con ciò ci sarà sempre più di una lingua in una lingua: siamo molteplicità, arcipelago e questa è la sfida che rende impossibile e, allo stesso tempo, richiede sempre la traduzione. L’aspetto anche politico della traduzione è stato oggetto di attenzione sin da Aristotele: la pluralità nella lingua e delle lingue richiede una responsabilità nei confronti di questa pluralità. José Ortega y Gasset, in Miseria e splendore della traduzione, scrive come la miseria della traduzione, legata all’esperienza dell’intraducibile, allo stesso tempo sia connessa allo splendore, come apertura ed esperienza dell’alterità. La traduzione riuscita non è quella che si richiude sulla propria lingua, ma quella che riesce in maniera più compiuta a fare da ponte fra l’originale e il lettore straniero, senza chiudere la porta alla possibilità di sfruttare in una maniera creativa le differenze, rendendo possibile il processo, il dialogo, la convivenza. In una lettura politica della traduzione Benjamin esprime l’idea di una lingua pura come telos di ogni traduzione: la politica del dialogo, della diversità e della traduzione contrasta l’uniformizzazione planetaria e l’imperialismo monolinguistico.
Il traduttore è un sovversivo. In questa direzione, secondo Rosenzweig, è necessario scuotere la propria lingua, trasformarla con la traduzione per mezzo dell’estraneo. Quest’idea ha come presupposto una visione della lingua materna, secondo cui già il parlare nella lingua natia è un tradurre, per cui la traduzione non è solo interlinguistica, ma anche intralinguistica. Ogni lingua è, sostiene Derrida, sempre e solo una monolingua, la lingua dell’Altro, venuta dall’Altro: una venuta dell’Altro a me, che fa da contraltare al mio sopraggiungere a lui, mediante lo scambio di parole. Quando, riferendosi all’idioma francese, Derrida ribadisce che “Sì, non ho che una lingua, e non è la mia”, non fa semplicemente riferimento al francese, il cui studio veniva imposto in Algeria dall’Autorità coloniale. Il rimando più acuto è all’alienazione che ogni lingua comporta di per sé. La stessa lingua materna altro non può essere che già lingua dell’Altro: essa è, infatti, sia un qualcosa che mi appartiene intimamente fin dai primi istanti di vita, sia ciò che mi permette di andare oltre l’Io, al di là del me per “aprirmi” a ciò che ancora non so. L’uso di una lingua è sempre una fuoriuscita da sé stessi che si traduce in una “tensione” verso l’Altro, verso quell’Altro il quale, esattamente come l’Io, nello spazio linguistico riscopre il senso del suo essere alterità e del suo appartenere ad unico genere umano. Ogni lingua, quindi, al contempo unisce e separa perché dotata di una sua irriducibile singolarità. Questa pluralità ed unicità del linguaggio fa sì che non vi sia discorso che possa farsi Assoluto, Totalità. Ogni parola, per il fatto stesso di essere portatrice di un significato, è esposta al rischio dell’interpretazione: del lettore che leggendola la fa propria, ma anche dell’autore, che la ruba alla lingua.
In una lettera a Rilke, Cvetaeva scriveva di non ritenersi una poetessa russa, perché per il poeta non esiste la lingua materna, ogni lingua è lingua straniera. Scrivere versi significa tradurre. È quasi un esercizio etico di ricerca della lingua madre. Hélène Cixous, pur con le stesse condizioni di partenza di Derrida, arriva a posizioni diverse. Anche lei ebrea franco algerina, mantiene però una fedeltà alla lingua materna, alla sua carnalità, ritrovandola nell’invenzione di una pratica di scrittura poetica e nel suo godimento. Il fatto è che Hélène Cixous non identifica mai la lingua materna con la lingua di un popolo, di una nazione. La lingua della madre, un tedesco orale emerge nella scrittura, nella quale lei segue la lingua francese, ma un francese rimodellato dalla presenza dell’oralità, che lo scompagina e lo disloca. Il cuore della scrittura è per Cixous di Entre l’écriture il ritrovare la lingua latte, la lingua canto materna, che le rende straniero il francese, nel quale comunque scrive. Lingua materna agrammaticale che affiora nella grammaticalità del francese. Derrida invece parla di pratica della scrittura come qualcosa che esplicitamente si allontana da quella lingua materna, che lui intende come monolinguismo imposto. Certo, potremmo domandarci se le parole ci tradiscono; eppure, in Sulla parola, Derrida indica la propria scommessa teorica ed esistenziale in una pratica di scrittura che decostruisce il francese, lo tende fino a mostrare che al suo interno avviene dell’altro. Qualcosa che non ha identità né concetto. C’è una lingua prima di qualsiasi lingua appresa, che non ha mai avuto luogo nel tempo e nello spazio. È ad essa che egli vuole rimanere fedele nella decostruzione del monolinguismo dell’altro: scrivendo alla lettera ciò che non è stato ancora scritto. Il tentativo di catturare l’aporia, di traduzione linguistica del non detto o dell’indicibile, è consustanziale alla pratica poetica.
Riferimenti
• Benjamin W., 1982, “Il compito del traduttore”, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, a cura di Giorgio Agamben, Torino: Einaudi
• Cixous H., 1986, Entre l’écriture, Paris: Des Femmes
• Cvetaeva M., Rilke R. M., 2010, Lettere, trad. U. Persi, Milano: SE
• Derrida J., 1982, Des tours de Babel, in Aut Aut
• Derrida J., 2004, Il monolinguismo dell’Altro o la protesi d’origine, trad. G. Berto, Milano: Cortina Editore
• Derrida J., 2011, Sulla parola, trad. A. Cariolato, Milano: Nottetempo
• Ortega y Gasset J., 2001, Miseria e splendore della traduzione, trad. C. Razza, Genova: Il Melangolo
• Wittgenstein L., 1980, Pensieri diversi, trad. M. Ranchetti, Milano: Adelphi
Grazie Evelina di aver apportato alla mia frugale mente concetti che hanno soggiornato e magari poi scappati via. Questo mi hanno ricondotto a delle curiosità che hanno avuto, qui, un riscontro sostanziale. Da approfondire il “tuo”, certo, ma uno stimolo in più per “sostare” anche in questo sito!
Grazie