Tradurre la poesia. Tra corpo e respiro

Tradurre la poesia: Bonnefoy direbbe che «la difficoltà della poesia è che la lingua è sistema, mentre la sua parola presenza», nella traduzione poetica, quindi, si tratta di istituire un “nuovo corpo”. Scrive Derrida: «Un corpo verbale non si lascia tradurre o trasporre in un’altra lingua. È proprio quello che la traduzione lascia cadere. Lasciar cadere il corpo, qui sta anche l’energia essenziale della traduzione. Quando istituisce di nuovo un corpo, essa è poesia». Celebre la negazione di un possibile tradurre nella poesia del poeta Robert Frost: cos’è la poesia? “Poetry is what gets lost in translation”, quello che si perde nella traduzione. Anche per Jakobson, in Aspetti linguistici della traduzione, la poesia è intraducibile per definizione, poiché in poesia il senso non è il contenuto informativo, ma il lavoro delle somiglianze fonetiche e delle equazioni linguistiche, delle rime, delle allitterazioni.

In poesia la somiglianza dei suoni ha valore semantico ed è proprio questa somiglianza fonetica di elementi non semantici di per sé ciò che non può tradursi. La poesia si può allora trasporre creativamente, ma non tradurre. Questa tesi rimanda al problema-spia della traduzione: cioè al problema del tradurre la lettera, intesa come il corpo verbale nel suo ritmo e nei suoi effetti di senso. Tradurre il corpo non significa tradurre parola per parola, ma tradurre il gioco dei significanti: tradurre cioè la «struttura conflittuale originaria della poesia», che vive nella tensione tra metrica e ritmo, tra suono e senso. L’unica traduzione possibile è allora una traduzione poetica della poesia, quella che Novalis chiama «traduzione trasformativa», opera del «poeta del poeta».

A. Sosabravo, Torre de Babel (1930)

Il fonosimbolismo si manifesta qui come punto di intraducibilità. Se ne trova un esempio nelle parole-gesto e nelle parole-silenzio di Paul Celan. I traduttori lottano con le parole di Celan, parole di un linguaggio diventato «figura di un singolo individuo», «il quale non dimentica che sta parlando sotto l’angolo d’incidenza della sua propria esistenza»; parole di un poetare che «rivela una forte inclinazione ad ammutolire». La non-ancora-parola che abita il silenzio ma aspetta di scaturirne: a questo tende Celan. In Der Meridian, il concetto di parola è sviluppato nella sua complessità di gesto poetico: è dapprima Gegenwort, contro-parola, antiparola, atto di «presenza dell’umano»; si fa poi Atemwende, svolta del respiro tra senso e suono: l’inspirazione dell’«aria che ci tocca di respirare» è la pausa che può volgersi in «poesia: ciò può significare una svolta del respiro» nell’espiro. Il valore semantico nel tradurre la poesia è affidato a trasformazioni e degenerazioni fonetiche, in cui la parola si consuma, fino alla “nonparola”, Unwort, oltre perfino la possibilità di una menzogna, quando ci si domanda se le parole ci tradiscono.

Sulla parola-silenzio, Celan traduttore dichiara il nesso con la ricerca di una parola pura originaria come condotta da Hölderlin. La poesia “Tübingen, Jänner” (Tubinga, gennaio) si chiude con la parola folle di Hölderlin, «Pallaksch», che significa ora “sì”, ora “no”. «Pallaksch» è una figura sonora, una “parola-tutto” asemantica e generatrice di significato, che richiama la gestazione della parola umana nella lallazione: cioè alla prima forma impressa dall’uomo alla materia sonora, resistenza al vuoto e al silenzio, passaggio dal muto al sonoro. Proprio il tradurre la poesia offre a Celan un luogo dove gli aspetti utopici della sua poetica possono ancora mostrarsi efficaci. Il tradurre avviene in uno spazio più aperto, più arioso rispetto a quello in cui si chiude la propria poesia, sempre più stretta e costretta, fino quasi a perdere il fiato, a perdere la parola. Nella traduzione l’io lirico può dare voce alla speranza parlando “per conto di un altro”. All’essere straniero a sé stesso del tu corrisponde una intima e riconoscibile presenza dell’io lirico.

L’io lirico avverte il tu come voce profonda e interiore. L’io fa del tu una esperienza psicofisica: la ri-creazione dell’altro e di sé stesso, muovendosi nello spazio aperto dalla propria lingua messa in relazione con la lingua di un altro. Dove il poeta Celan sente sempre più compresso lo spazio della propria poesia dura e irritante, il traduttore Celan ritrova fiato per dire, per respirare, nel confronto con un altro poeta, straniero. Scrivere è espirare: «“Come nel polmone, così sulla lingua”, diceva mi madre. Ha a che fare col respiro. Bisognerebbe finalmente imparare a leggere nella poesia questo respiro, questa unità di respiro; nei còla il senso si trova in modo più veritiero che nella rima; forma della poesia: è presenza del singolo, essere che respira». In questa annotazione Celan cerca di rendere fecondo un tipo particolare di silenzio «che ha a che fare col respiro».

Il silenzio che prelude all’espirazione. «La poesia: la traccia del nostro respiro nella lingua. Il fiato del nostro essere mortali, insieme al quale un frammento di lingua trapassa nel nulla. E in questo modo nasce quel vuoto in grado di dare forma al Nuovo». L’intento generativo rimette potentemente in gioco l’eros, il corpo. Celan trova in Rosenzweig che lo pneuma divino, Ruach, si tramanda solo in congiunzione con altri, di generazione in generazione. Non è più l’unico Dio, ma l’uomo congiunto carnalmente alla donna a generare il senso e a tramandarlo. Il senso di comunione comprende l’unione erotica, la riformulazione del rapporto con la parola non più divina, ma parola umana. Il rapporto è stato trasformato per sempre dalla morte. Celan è passato attraverso l’orrore della guerra. Ma proprio questo passaggio attraverso la morte consente di recuperare la terra perduta e di salvare la lingua dalla perdizione babelica, dalla sconfitta rispetto al male: il male è il vuoto che non ha niente a che fare con il nulla biblico generatore. Il vuoto viene qui sfidato: «Non facciamo / discendere / nessuno / a te, / Babele» (Incoronato fuori, 1998).

A guerra finita, Celan trova il modo di sopravvivere grazie alla capacità di muoversi tra diverse lingue. Lavora presso una casa editrice e traduce autori francesi, ebrei antichi, russi, israeliani, inglesi, americani, portoghesi, italiani, rumeni. Intenderà questo lavoro come il compito di chi getta ponti tra due lingue e culture sentite come proprie ed estranee allo stesso tempo. Per sé stesso sarà la necessità di porre la propria lettura, la propria scrittura come testo a fronte di autori che lo interessano, che gli parlano, con cui intraprende un rapporto. Cosa vuol dire interloquire con qualcuno o qualcosa che mi sta a fronte? Celan stesso si pose questa domanda. Osip Mandel’štam, in Dell’interlocutore, scriveva: «Il piacere della comunicazione è inversamente proporzionale alla nostra conoscenza reale dell’interlocutore. Perché questi versi giungano al destinatario, ci vorranno forse le stesse centinaia d’anni che occorrono a una stella per fare giungere la propria luce a un pianeta lontano».

Celan si confronta anche con Buber, ne accoglie il movimento dall’io al tu, ma lo supera dal proprio punto di vista, quello del poeta. Infatti, la ripresa di possesso di sé, come dell’altro, non è mai totale ed è continua. Per Celan accade ogni volta. Pensiamo al carattere performativo che la poesia possedeva per lui, tanto che ad ogni lettura Celan introduceva varianti: di parola, di ritmo, di pausa, di accento. Celan condivide il rapporto di reciprocità di Valéry :«Nessuno potrebbe pensare liberamente se i suoi occhi non potessero abbandonare altri occhi che li seguissero. Non appena gli sguardi si prendono, non si è completamente a due ed è difficile rimanere soli. Questo scambio, la parola è qui opportuna, realizza in un tempo brevissimo una trasformazione, una metatesi: un chiasma di due “destini”, di due punti di vista. Si fa con ciò una sorta di reciproca limitazione simultanea. Tu prendi la mia immagine, la mia apparenza, io prendo la tua. Tu non sei me, poiché mi vedi e io non mi vedo. Ciò che mi manca è quell’io che tu vedi. E a te, quel che manca, è il tu che io vedo. E se prima di procedere nella conoscenza reciproca ci rifletteremo l’uno nell’altro, tanto più saremo altri». Un rapporto che vive della differenza tra io e tu, mettendo in evidenza i contorni di ciascun interlocutore. E per Celan«La poesia vuole raggiungere un altro, ha bisogno di questo altro, ha bisogno di qualcosa a fronte. Lo cerca, gli si consegna in forma di parola. Ogni oggetto, ogni essere umano è nella poesia che si protende verso l’altro, una figura dell’altro».

Resta, comunque, una zona di irriducibilità tra io e tu. Il poeta e chi lo comprende restano in un rapporto di complementarità. «Creare e recepire: inscindibili» e mai definitivi. Il testo viene letto, tradotto, accolto, fatto proprio continuamente. La meta è la salvezza. Occorre salvarsi da un altro rischio del mito di Babele, quello del caos del nonsenso o da una forma non generativa di silenzio: la non comunicazione, la falsa comunicazione. Per questo è nella traduzione della poesia o dei testi sacri che emerge nella sua pienezza la questione dell’alterità e dell’esperienza linguistica del mondo. È proprio il tentativo di tradurre l’intraducibile, lo stare sulla frontiera dell’Altro, nel tentativo di ospitarlo a rischio di “alterare” la propria lingua, che mette in movimento la ricerca del senso, che produce nuove modalità di vivere e di convivere. Ed è in questo punto che la questione poetica torna a farsi politica.

Riferimenti

• Bonnefoy Y., 2005, La comunità dei traduttori, Palermo: Sellerio
• Buber M., 1993, Il principio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo: San Paolo
• Celan P., 1993, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, trad. G. Bevilacqua, Torino: Einaudi
• Celan P, 1998, Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di G. Bevilacqua, Milano: Mondadori,
• Celan P., 1963, “Tübingen, Jänner”, in Die Niemandsrose, Frankfurt am Main: Fischer
• Derrida J., 1971, La scrittura e la differenza, trad. G. Pozzi, Torino: Einaudi
• Jakobson R., 2008, “Aspetti linguistici della traduzione”, in Saggi di linguistica generale, trad. L. Heilmann e L. Grassi, Milano: Feltrinelli
• Mandel’štam O., 2003, “Dell’interlocutore”, in Sulla poesia, trad. M. Olsùfieva, Milano: Bompiani
• Novalis, 1987, Frammenti, trad. E. Pocar, Milano: Rizzoli
• Rosenzweig F., 1991, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, trad. Gianfranco Bonola, Roma: Città Nuova
• Valéry P., 1941, Tel Quel, Paris: Gallimard

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One Reply to “Tradurre la poesia. Tra corpo e respiro”

  1. Evelina Barone molto brava,persona sensibilissima,dotata e di acquisita cultura,non nozionistica ma sentita e metabolizzata.
    E’ utile alla società per quanto svolge e come lo svolge,e con quanta passione.
    Le porgo la mia forte ammirazione. Ne avessimo tante di Eveline Barone.

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